C’è un angolo del Regno Unito dove, anno dopo anno, sta trovando rifugio una generazione di ricercatori italiani. Siamo a Bristol, nel sud ovest dell’Inghilterra, città progressista e brulicante di studenti, centro multiculturale dove la Brexit, a giugno 2016, non ha avuto la meglio nei voti dei residenti. Qui, nel Quantum Engineering Technology Labs dell’Università di Bristol si vive lo strano ma non troppo caso in cui un consistente nucleo di ricercatori italiani ormai da dieci anni lavora fianco a fianco esplorando pionieristici campi della scienza.

“Negli ultimi anni il numero di laureati che finiscono a fare ricerca in altri Paesi è aumentato, tant’è vero che, scherzando ma non troppo, si parla di una colonizzazione italiana della ricerca all’estero”, racconta Stefano Paesani, 26enne romano, al terzo anno di dottorato a Bristol. “Per fare un esempio, in tutti i centri di ricerca che ho visitato finora c’era almeno un italiano, e in Inghilterra ci sono gruppi di ricerca formati quasi esclusivamente da italiani”. Accanto a lui Antonio Andrea Gentile, 31enne di Brindisi, anche lui Phd mentre Raffaele Santagati, 37 anni, è un senior postdoc nato a Termini Imerese, nel Palermitano. Tutti e tre lavorano al Quantum Engineering Technology Labs e il loro campo di studio è la simulazione quantistica, ovvero come simulare sistemi complessi con proprietà appunto “quantiche”, usando chip fotonici potenzialmente superiori ai computer classici.

In tutti i centri di ricerca che ho visitato finora c’era almeno un italiano

Ma qual è l’importanza di quella che loro stessi definiscono la prima generazione di italiani a Bristol? “Il gruppo di Bristol è stato in assoluto fra i pionieri della tecnologia dei chip fotonici in ambito quantistico, dimostrando per la prima volta la manipolazione di particelle di luce, i fotoni, in microchip fotonici”, precisano i tre ricercatori. I loro colleghi sono scienziati di Microsoft e Google. Pubblicano studi per le riviste più affermate come l’ultimo lavoro che hanno firmato su Science Advances.

Verrebbe da chiedersi se c’è una matrice comune nel percorso che ha catalizzato tanti – al momento circa una decina – ricercatori italiani nello stesso dipartimento inglese. “Intanto, la rapidità nella procedura burocratica nell’avviare un percorso qui – racconta Antonio che, come Stefano, si è trasferito a Bristol tre anni fa – perché le tempistiche veloci, soprattutto nel nostro settore, sono fondamentali”. Poi, negli ambienti inglesi si respira quel rispetto, verso la figura accademica, che in parte si sta perdendo nella piccola Italia. “Non è stata certo la paga ad attirarci – continua Raffaele, che ha iniziato la sua esperienza inglese nel 2012 – ma la disponibilità di posizioni dignitose, nonché l’effetto domino nel vedere altri italiani riuscire nel proprio campo”. Inoltre, non si deve dimenticare che “le università italiane forniscono un’ottima preparazione, rendendo i candidati italiani molto appetibili – chiude il 37enne siciliano -. Quindi non solo Bristol attira noi italiani, ma noi italiani attraiamo Bristol”.

L’Italia dovrebbe essere brava, come fanno altri paesi come la Cina, a facilitare il rientro dei ricercatori

Un esercito di risorse che potrebbero rappresentare un enorme potenziale per l’Italia. Infatti, “la stragrande maggioranza dei ricercatori che ho conosciuto hanno il desiderio di tornare a casa”, racconta Raffaele Santagati, dimostrando come basterebbe poco per innescare il ritorno di una buona parte degli accademici. “L’Italia dovrebbe essere brava, come fanno altri paesi come la Cina, ad approfittarne, facilitando il rientro dei ricercatori invece di bollarci come fuggitivi e lanciarsi in facili nazionalismi”, insistono Stefano e Antonio. “In Messico, per esempio, finanziano borse di PhD con l’obbligo di trascorrere periodi di ricerca in patria dopo la fine degli studi. Dovrebbe essere questa la prospettiva quando vediamo qualche connazionale fare le valigie”.

Dell’Italia manca l’ardore delle discussioni, ad Antonio Gentile, anche se “ci sono abbastanza italiani qui a Bristol da non farmelo mancare troppo”. Ci sono poi quei piccoli dettagli, come “il calore e la sincerità” delle persone, “che tanto svilivo quando ero in Italia e tanto mi mancano ora che sono in Inghilterra”, continua Stefano. “C’è chi conclude che l’Italia sia il posto perfetto per la pensione”, sorride Antonio. “Peccato la pensione sia un mito e l’Italia un paese complesso. L’unica ricetta, allora, è non stancarsi di provare a migliorarlo”.

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