La poesia in Italia è viva e sta benissimo. O meglio, sta benissimo un determinato tipo di poesia performativa: la cosiddetta slam poetry, disciplina da scontro che si esprime in sfide a colpi di versi, in cui il giudice è il pubblico e i vincitori vanno avanti fino a competere a livello nazionale e internazionale. Diciamolo subito, è chiaro che il concetto di “gara di poesia” lascia il tempo che trova. Fortunatamente non esiste alcun metodo di giudizio oggettivo: possiamo soltanto dire quale poeta e quale testo ci parla più da vicino, e la meraviglia è proprio questa. Lo sanno bene gli slammer, gli organizzatori e lo sapeva altrettanto bene fin dall’inizio chi ha portato in Italia questo genere (in primis Lello Voce, che spesso affida le sue riflessioni alle pagine del Fatto) dai bassifondi di Chicago dove è nato. La competizione è una scusa per portare la poesia dove prima non c’era, per ridiscutere il coinvolgimento del pubblico, per ripensare il rapporto tra scrittura e performance dal vivo. Sicuramente poesia anti accademica, che qualcuno si è spinto a definire antipoesia appunto per il carattere così inedito e sovversivo.

Ecco, grazie al lavoro di Voce e di reti nazionali come Lips – Lega Italiana Poetry Slam – la Penisola è ormai costellata di piccoli e grandi eventi in cui poeti (o sedicenti tali) si sfidano, si confrontano, si ispirano reciprocamente e a volte si mandano a quel paese, in una dinamica che richiama vagamente quella delle “battle” in cui sono i rapper a confrontarsi. Quindi potreste trovare uno slam in un teatro, ma anche in una birreria; e sul palco potreste appunto vedere un rapper contro una penna più classica, ciascuno più o meno bravo, coinvolgente, convinto di potersi meritare l’appellativo di poeta. Il vincitore verrà fuori secondo l’umore del pubblico e di mille altre variabili, ma un minimo di oggettività deve in fondo esserci se è vero che per gli ultimi tre anni consecutivi il campione italiano Lips è stato, meritatamente, Simone Savogin. E oggi, in attesa di soddisfazioni calcistiche internazionali che tardano ad arrivare, mi sembra divertente segnalare che – almeno in poesia – abbiamo un campione nazionale che gira il mondo rappresentando il nostro Paese e portandosi spesso a casa anche delle belle vittorie.

Per quanto mi riguarda, penso che noi rapper abbiamo ovviamente da imparare dalla scrittura dei poeti, e spesso mi fa piacere vedere come anche loro guardino a noi nel rapporto con il pubblico e il palcoscenico. Ovviamente i riferimenti non sono certe scimmie urlatrici che ultimamente purtroppo passano per hip-hop, ma crossover coraggiosi che hanno già dato ottimi frutti oltreoceano, come ad esempio Def Poetry, lo spettacolo condotto da Mos Def che ha visto appunto confrontarsi sul palco questi due mondi i quali, in estrema analisi, hanno probabilmente il fine unico di rappresentare il presente che viviamo. Nella vostra città è già molto probabile che ci siano degli slam: cercate sui social e li troverete. Io ho appena fatto una scelta di campo entrando in Spoken, realtà basata a Roma che è protagonista di molti eventi in luoghi diversissimi ma caratterizzati finora da un grande successo di pubblico e – permettetemi di dirlo – anche da un ottimo livello di versi sui palchi.

Come è sacrosanto che sia, anche una scena così complessa e pullulante si attira delle critiche, e negli ultimi giorni ne è arrivata una da parte di una voce autorevole, quella della poetessa e performer Rosaria Lo Russo, che spesso si è trovata a condividere il palco con gli slammer e, tramite Facebook, definisce la loro forma espressiva “banalissima, dal linguaggio piatto, che non dice nulla che già non si sappia, che è finta protesta, finti sentimenti ecologici, una finzione banalissima, più banale di una canzonetta di Sanremo, tarata su schemi consunti e abusati di ritmo rappeggiante”.

Risponde, con spettacolare ironia ed efficacia, Sergio Garau, uno dei protagonisti della scena. Il post non è particolarmente sintetico, ma merita la lettura perché è un viaggio in ciò che molti di noi hanno trovato nella slam poetry: “Lo slam dice al 14enne che la poesia può essere anche quella che scrive e ascolta lui, che la sua comunità di pari può decidere se rappresentarvisi, riconoscervisi. Può essere un modo di avvicinare alla lettura di poeti, contemporanei o del passato. La poesia di intrattenimento consumistico (libresca, digitale o orale che sia) abbatte il Mostro della Noia Mortifera Poetica, ma, sorpresa sorpresa, ne prende il posto e diventa il secondo mostro: il Mostro dell’Intrattenimento Consumistico. Ecco, lo slam io non lo colloco come ponte tra il primo mostro (la noia) e il secondo mostro (l’intrattenimento), ma come ponte tra il secondo mostro (l’intrattenimento) e la tanto agognata poesia, l’oggetto di valore di questa nostra narrazione”.

Da un lato, capisco Lo Russo. Nell’epoca in cui siamo tutti sismologi, virologi ed esperti di economia – oltre che ovviamente commissari tecnici della Nazionale – è inevitabile che ci crediamo anche tutti poeti. Ed è chiaro che – ai locali che spesso con Spoken riusciamo a riempire di gente – i versi e le strofe probabilmente interesserebbero di meno se facessero vendere meno pinte di Ipa e shottini. Dall’altro lato, evidentemente, sono dalla parte di Garau: magari un ragazzino viene allo slam perché sa che lo frequenta il suo rapper preferito, e da lì gli viene la curiosità di cercarsi Baraka o Cortázar. A me vogliate consentire, però, un approccio più grezzo rispetto a questi due esimi autori.

Negli ultimi tempi ho l’opportunità di trascorrere parecchio tempo con un’associazione che, tra le altre cose, gestisce la biblioteca di un carcere minorile (merita di essere nominata: si tratta di Fuori Riga, e dovreste supportarla anche voi!). Lavorando accanto alle operatrici, ho notato che fanno tutti gli sforzi possibili per accontentare le richieste dei ragazzi detenuti, andando a cercare per loro anche titoli di scarsissimo valore letterario. “Un brutto libro è meglio di nessun libro”: il ragionamento non fa una piega e, per come la vedo io, il pensiero è applicabile anche alla nostra società in generale, dove aumenta il numero dei “non lettori”, cioè le persone che non prendono mai in mano un libro, in assoluto. Anche i romanzi pseudoerotici e le raccolte di aforismi riciclati sono meglio del nulla, perché sono parola scritta e quindi per definizione più ordinata, potente, memorabile del vago e spaventoso non-logos in cui siamo immersi. E, onestamente, amplierei ulteriormente il discorso anche alla poesia e alla sua fruizione.

Ipotizziamo di organizzare un piccolo slam, e che vengano 50 persone come pubblico. Forse uno o due avranno l’ispirazione per mettersi a scrivere dei versi. È una cosa che ha del magico, e non la sottovaluto assolutamente. Poi diciamo che altri dieci – se proprio siamo stati bravissimi – appena tornati a casa cercheranno i libri che prendevano polvere dai tempi del liceo e rileggeranno, magari leggendoli davvero per la prima volta, Pavese o Baudelaire. Anche qui la magia è fatta: forse la poesia comincerà ad avere un ruolo nel loro quotidiano. Ma a me, francamente, interessano gli altri 38. Quelli a cui forse – per quanto possa sembrare assurdo – bisogna dire che la poesia, in Italia, nel 2018, esiste. Proprio fisicamente, al di là delle didascalie di Instagram e dei Baci Perugina. Che qui e oggi ci sono delle persone che scrivono versi, che li performano in pubblico e che perfino si prestano al gioco di farsi giudicare da loro.

Piaccia o no, questa è la situazione che la generazione precedente ci ha lasciato. E piaccia o no, la poesia appartiene ai 38 non meno che al resto del pubblico e, perfino, non meno che ai poeti che i versi li hanno scritti e sputati. Voler far crescere la poesia senza lavorare sul pubblico è un atteggiamento elitario e classista. Un pubblico educato, consapevole ed esigente è il meglio che la poesia possa augurarsi, perché costringerebbe a migliorare anche chi è sul palco.

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