Il termine esatto è water grabbing, ovvero “accaparramento dell’acqua”, con effetti devastanti soprattutto in Palestina. La lotta per l’oro blu è da anni al centro del conflitto tra palestinesi e israeliani. Molti ricorderanno la crisi nell’estate 2016 quando numerosi villaggi e campi profughi palestinesi rimasero per diversi giorni senz’acqua. A causa dell’assedio economico israeliano, del ripetuto bombardamento di infrastrutture idriche e fognarie e di una falda acquifera di qualità scarsa, il 97% dei pozzi di acqua potabile di Gaza sono al di sotto degli standard minimi di salute per il consumo umano. Il dottor Majdi Dhair, direttore della medicina preventiva presso il Ministero della sanità palestinese, riferisce di un enorme aumento delle malattie trasmesse dall’acqua, direttamente correlate all’acqua e alla contaminazione da acque reflue non trattate che fluiscono direttamente nel Mediterraneo.

Nel campo profughi Shati vivono 87mila rifugiati e le loro famiglie – espulsi dalle loro città e villaggi durante la creazione di Israele nel 1948 – stipati in mezzo chilometro quadrato di strutture di blocchi di cemento. Le cifre del Ministero della salute palestinese mostrano un “raddoppiamento” di patologie legate alla diarrea, che aumenta fino ai livelli epidemici. Così come accaduto durante l’estate 2018, con i picchi di salmonella e persino la febbre tifoide. La maggior parte delle famiglie, anche nei campi profughi, spende fino alla metà delle loro modeste entrate per l’acqua desalinizzata dai pozzi non regolamentati di Gaza. Ma anche questo sacrificio ha un costo. E così l’acqua contaminata è divenuta la principale causa della mortalità infantile. I palestinesi dipendono in larga parte dagli israeliani per l’acqua, tant’è che esiste una cesura nel diritto per l’accesso all’acqua tra i due popoli come aveva raccontato a Lifegate Amit Gilutz, portavoce di B’tselem, un’organizzazione israeliana che lavora con lo scopo di tutelare i diritti della popolazione araba in Terra Santa. Gilutz dichiarò che per ogni pozzo nuovo, anche nei territori controllati dall’Autorità palestinese, serve un permesso dall’Autorità civile regionale israeliana (Ica).

L’acqua per i territori palestinesi diventa sempre più cruciale. Sin dall’inizio dell’occupazione israeliana della West Bank e della Striscia di Gaza nel 1967, le provviste d’acqua per i palestinesi della West Bank non copriva il fabbisogno di base di acqua necessario ai palestinesi. Inoltre nel 1995 Israele ha sfruttato l’85% dell’acqua di superficie palestinese incanalando questa risorsa verso gli insediamenti dei suoi coloni presenti nella West Bank e nello stesso territorio di Israele. Nel quadro degli accordi di Oslo sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) avevano cercato di definire i modi tramite il famoso articolo 40 ma con scarsi risultati sulle stime delle risorse idriche. 

Insomma una partita geopolitica fondamentale, in cui lo Stato che riesce a utilizzare più acqua possiede allo stesso tempo più potere per far funzionare e sviluppare la sua industria e la sua agricoltura e per garantire benessere e salute alla sua popolazione. Il bisogno di acqua diventa inizialmente un’arma politica per trattare o negoziare, anche se al momento a soffrirne sono Gaza e i territori palestinesi. La mortalità infantile causata dall’acqua contaminata pone un freno alla stessa crescita demografica del popolo palestinese. L’arma, per certi versi, più temuta dagli israeliani.

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