Prima domanda: che cos’è oggi, dopo il voto del 28 ottobre, la República Federativa do Brasil? Risposta: la República Federativa do Brasil è una democrazia con un fascista per presidente. Ed è per questo, inevitabilmente, una democrazia in pericolo, un potenziale (ed enorme) buco nero nel cuore d’un continente che, in un tristissimo autunno, sta vivendo l’agonia della lunga stagione democratica e progressista apertasi esattamente 35 anni fa, quando alla fine dell’ottobre 1983, la vittoria di Raúl Alfonsín annunciò la fine delle dittature militari che, in Argentina, in Brasile e nell’intero “cono sur” avevano, per oltre un decennio, insanguinato l’America latina.

Perché ci si può girare attorno, si può, fin che si vuole, spaccare il proverbiale capello in quattro in merito alle similitudini e alle differenze, si possono moltiplicare i distinguo e le distinzioni, ma la sostanza resta. A dispetto delle parole a mezza bocca pronunciate il giorno del suo trionfo – “difenderò la Costituzione e la democrazia” -, il nuovo presidente democraticamente eletto, Jair Messias Bolsonaro, possiede e senza ritegno mostra, nei gesti, nelle parole, nello stile di vita, nell’estetica tutto quella che del fascismo è da sempre la linfa vitale: il culto della violenza e della morte, la volgarità, il gusto sordido della sopraffazione dell’”altro”.

Il tutto condito da un dichiarato amore non solo per la dittatura che fu, ma di quelli che della dittatura furono gli aspetti più cruenti. Bolsonaro istintivamente adora tutto ciò che abbia l’odore del sangue o, in qualche modo, sappia di caserma, di giunta militare o di golpe. E questo al punto che, nel 1999, arrivò a entusiasticamente elogiare – definendolo “la speranza dell’America latina” – persino il tenente colonnello golpista Hugo Chávez, allora fresco presidente del Venezuela e oggi mostrato postumo alle folle come il più classico degli spaventapasseri anticomunisti.

Seconda domanda: come ha fatto, questo inequivocabile fascista, a conquistare, grazie al voto popolare, la presidenza del Brasile? Per capirlo, io credo occorra partire da una data e da una formula politica. La data – che, seppur cronologicamente prossima, appare oggi anni luce lontana – è il primo gennaio dell’anno del Signore 2011. E la formula politica è: “Il dilemma della governabilità”.

Non è possibile qui, per ragioni di spazio, raccontare in dettaglio un estremamente complesso intrecciarsi di eventi. Sicché rimando, per una più accurata analisi, a un più ampio articolo che scrissi mesi fa, il giorno dell’arresto di Lula. Ridotta tuttavia al suo nocciolo la storia è questa. Quando, all’alba del 2011, Lula da Silva passò la fascia presidenziale all’erede da lui prescelta, Dilma Rousseff, vantava indici di gradimento oltre l’80%, che facevano di lui (e di gran lunga) il più popolare presidente della storia del Brasile. Lula piaceva, in effetti, a tutti. Alla super-élite “globalista” di Davos e agli “alternativi” del Foro sociale mondiale, ai socialdemocratici, ai “rivoluzionari” e, persino, ai conservatori. Entrambi i presidenti Usa da lui conosciuti come “colleghi” – George W. Bush e Barack Obama – lo avevano corteggiato e incensato, in sintonia con pressoché tutti gli altri leader planetari. In un Brasile che sembrava diventato, infine, protagonista della sua storia e di quella del mondo, Lula era a tutti gli effetti diventato la proverbiale quadratura del cerchio, il punto d’incontro d’ogni diversità, l’oasi nella quale ogni conflitto s’acquietava.

Perché? Perché sotto la sua guida il Brasile aveva – grazie alla spinta del “vento di coda” del boom mondiale delle materie prime – conosciuto per sette anni indici di crescita (più 7,5% nel 2010) pressoché “cinesi”, producendo una ricchezza che, intelligentemente redistribuita, aveva portato dalla povertà al più dignitoso alveo della classe media ben 36 milioni di persone (di fatto, un Paese più grande di mezza Italia).

Tanto miracolo – prodotto non della “rivoluzione” che Lula e il suo Partido dos tabalhadores avevano a lungo promesso, bensì, all’opposto, della “continuità-discontinuità” che, alla vigilia delle elezioni del 2002, lo stesso Lula aveva illustrato nella sua molto tranquillizzante “lettera aperta al popolo brasiliano” – aveva tuttavia una premessa e un prezzo: quello che, per l’appunto, molti analisti hanno chiamato “il dilemma della governabilità”. Popolarissimo, ma privo d’una maggioranza parlamentare, Lula poteva – come ogni altro presidente brasiliano – governare il Paese solo attraverso una coalizione. E “coalizzarsi” sostanzialmente significa, in Brasile, venire a patti con la vischiosa realtà di potentati economici, poteri locali e clientelari o, per meglio dire, con una corruzione sistemica che il Pt ha prima tentato di cambiare “da dentro”, poi tollerato e infine cooptato.

Occultato sotto il tappeto dei successi economici, il gioco è stato infine impietosamente scoperchiato, sul finire del 2014, da due concomitanti fattori: la più profonda e prolungata recessione della storia del Brasile – esaltata dalla fine del “commodity boom” e dalla fragilità d’una crescita basicamente fondata sull’aumento del consumo – e il travolgente effetto-domino di indagini giudiziarie che, partite da una marginale inchiesta in quel di Curitiba, hanno finito per demolire l’intero sistema politico.

È in questo deserto che è nato il fenomeno Bolsonaro. E è in questo deserto che non solo la sinistra, ma tutto il tessuto democratico brasiliano non ha saputo cogliere la realtà d’un Paese esasperato dalla violenza, dalla corruzione e da una democrazia incapace di combattere la prima e corrosa dalla seconda. Condannato e incarcerato – poco importa qui stabilire se giustamente o ingiustamente – Lula ha commesso l’errore tragico di voler trasformare le ultime presidenziali non in una battaglia per la sopravvivenza della democrazia, ma in un referendum pro o contro se stesso. E lo ha perduto. Tutta la democrazia brasiliana lo ha perduto. E ora la domanda – una domanda angosciante e inedita – è: riuscirà, questa democrazia, a sopravvivere con un fascista alla sua guida?

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