di Riccardo Cristiano*

Quello degli scismi ecclesiali sembrava un tempo ormai lontano. Poi, improvvisamente, la rottura dell’unità ortodossa sul riconoscimento della richiesta ucraina ad avere anch’essa un proprio patriarcato autonomo, non più dipendente da quello di Mosca, ha riportato lo scisma, cioè lo “strappo”, nella realtà dell’oggi. Kiev rivendica un proprio patriarcato, alla stregua di bulgari, romeni e serbi, da quando terminò la Prima Guerra Mondiale. Poi la richiesta si è riaccesa con la fine dell’Unione Sovietica e il referendum che vide l’Ucraina separarsi dalla Russia.

Questa rivendicazione è diventata una questione di primaria importanza con il conflitto armato che negli anni recenti ha contrapposto proprio russi e ucraini. La decisione spettava al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, una sorta di primus inter pares nella famiglia dell’ortodossia. Questione delicatissima, perché il patriarcato di Mosca non ha mai accettato di rinunciare al proprio diritto canonico sui territori di tutti i paesi dell’ex Unione Sovietica, più Cina e Giappone. Certo, c’è l’eccezione della Georgia, ma quella non poteva non esserci, essendo quella una Chiesa tra le più antiche del mondo, di gran lunga precedente a quella moscovita.

Al patriarcato di Costantinopoli non potevano prendersi altro tempo, anche considerato che i tempi orientali non sono proprio velocissimi, ma ormai la richiesta era lì da anni, la questione andava affrontata sebbene il conflitto russo-ucraino l’avesse resa “esplosiva”. La decisione del Patriarcato di Mosca di respingere la decisione del Patriarcato ecumenico era data da molti per certa, non il livello della reazione: congelamento di ogni relazione ecclesiale, proibizione anche della concelebrazione. Decisione che, significativamente, è stata annunciata da Minsk, capitale di quella Bielorussia che Mosca considera altrettanto irrinunciabilmente parte di sé.

Il ragionamento di Mosca si basa soltanto sull’indisponibilità a rinunciare alla propria dimensione imperiale? Una costola estrema del nazionalismo ortodosso russo, da secoli definisce Mosca “la Terza Roma”. Dopo il crollo della prima e la conquista islamica della seconda, per l’appunto Costantinopoli, la Terza Roma sarebbe Mosca, quella che non cadrà mai e che incarnerebbe la nuova “cristianità”. Questa idea “radicale” spiega, come spiegano le enormi sofferenze della Chiesa russa in epoca sovietica e lo spirito di corpo russo ad esse seguito, per cui i russi non potevano continuare a subire umiliazioni, perdere il controllo di territori anche in termini “religiosi”. Il trauma della fine dell’impero sovietico, impero russo, non doveva rinnovarsi in una perdita anche di peso “religioso”.

Nella storia degli scismi il territorio ha sempre contato e lo dimostra anche la storia dello scisma più famoso, quello tra cattolici e ortodossi, dove la questione dottrinale, relativa allo Spirito Santo, è stata secondo molti storici assai meno cruciale rispetto alla questione territoriale: Roma pretendeva il riconoscimento, quale sede di Pietro, di una primazia rispetto alle sedi più antiche, Costantinopoli, Gerusalemme, Antiochia e Alessandria. In questo scisma odierno non c’è neanche la “copertura” dottrinale, lo scisma riguarda il territorio, cioè il “potere”. Mosca non accetta la storia, la realtà storica di oggi? Questo sembra il problema. E a renderlo ancor più doloroso per i russi c’è il fatto che il cristianesimo russo nasce a Kiev, è Kiev la culla del cristianesimo russo. Ma, per fare un esempio paradossale, non potrebbero certo accettare che il patriarcato per restare comune si chiami patriarcato di Kiev, e non di Mosca.

Così il dramma che vivono gli ortodossi in queste ore è il dramma di una scisma nel quale entra la politica, ad esempio la forza con cui Putin rivendica al suo Paese il ruolo di guida politica, militare e spirituale del mondo ortodosso, tanto è vero che ha discusso dello scisma con il suo Consiglio di Sicurezza nazionale; ma c’entra di più la grande questione spirituale. Un altro scisma, quello protestante, pose altre importantissime questioni ecclesiali ma ha nei fatti portato all’accettazione del sistema degli Stati nazionali mettendo in crisi la concezione cattolica della supremazia del potere papale rispetto a quello dei re e imperatori. Quando, secoli dopo, il cattolicesimo fu liberato dal potere temporale grazie al Concilio Vaticano II, il papato arrivò a capire quella svolta come una vittoria, non una sconfitta.

Il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, ha capito che questo funziona anche per chi pensa di imporre il proprio potere spirituale dall’ombra di un potere politico e sembra aver avviato un enorme processo che domani porterà l’ortodossia a scoprire che liberarsi dai lacci etnici e politici è una vittoria, non una sconfitta. Ma sarà una strada lunga e oggi tutta in tremenda salita, anche per il peso del passato e della politica che difficilmente si stanca di usare le religioni.

*Vaticanista di Reset

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