La riservatezza della nostra navigazione online è e rimane una chimera. Chi pensa di essere blindato, sbaglia. E a commettere questo errore sono davvero tanti, anche grazie alla “complicità” di meccanismi di sicurezza che promettono garanzie, protezione, tutela.

L’inserimento della funzione “Do Not Track” (non tracciare) all’interno dei software di navigazione in Rete ha ingenerato un clima di estrema rilassatezza: gli utenti, convinti di poter fare affidamento sul browser, non hanno preso in considerazione l’ipotesi che qualcosa potesse non andare come previsto.

L’opzione “DNT” invia al sito che si sta per visitare una richiesta invisibile per conto dell’utente: qualcuno ha scoperto che quel flebile “fai finta di non vedermi” o ancor più sommesso “non schedare il mio passaggio” non sortisce l’effetto desiderato. In pratica il “Do Not Track” non serve a nulla o, a voler essere ottimisti, ha efficacia molto ridotta.

Mentre chi era certo di una certa invisibilità ripensa a dove può aver lasciato indizi del suo peregrinare tra destinazioni… più diverse, vale la pena capire cosa stia effettivamente accadendo. Sono stati in parecchi a ritenere che l’attivazione del DNT avrebbe impedito ad un sito pornografico o anche semplicemente a Facebook di raccogliere la navigazione precedente del proprio avventore. Si infrange anche l’opinione diffusa che grazie a simili accorgimenti vengano bloccati pure i “tracker” delle cosiddette “terze parti”: i sistemi di “pedinamento” che produttori di “app” infilano qui e là se ne fregano della garbata istanza dell’utente che chiede venga rispettata la propria privacy.

L’iniziativa di prevedere regole e strumenti a tutela della riservatezza è stata avviata nel 2010 dalla Federal Trade Commission (organismo statunitense molto simile all’Autorità Garante per la Concorrenza sui Mercati, ossia l’Antitrust italiana). Le buone intenzioni istituzionali non hanno però portato ad un risultato davvero concreto perché chi gestisce i siti – soprattutto quelli maggiormente importanti – non ha ritenuto di aderire appieno. Anche se i “browser”, opportunamente impostati dall’utente, chiedono di non eseguire tracciamenti o registrazioni delle attività, il sito non ne tiene assolutamente conto e immagazzina voracemente tutte le informazioni che può acquisire dal computer del visitatore.

Realtà frequentatissime come Yahoo e Twitter hanno dato inizialmente la massima disponibilità a rispettare il “Do Not Track” ma con altrettanta celerità hanno poi abbandonato ogni buon proposito in tal senso.

Google, Facebook, Pornhub e xHamster (giusto per fare qualche esempio) non hanno nemmeno fatto il beau geste di prestare attenzione a simili inviti.

La piattaforma social di Mark Zuckerberg non rispetta il DNT ma assicura di avvalersi di strumenti diversi a tutela dei suoi utilizzatori (e poi storie come quella di Cambridge Analytica sembrano smentire tutta questa dedizione alla protezione dei propri iscritti…).

Gli atteggiamenti più bizzarri adottati dai fornitori di servizi e di contenuti telematici culminano a casa Google. Come noto a tutti, la casa madre del più grande motore di ricerca del mondo ha realizzato il software di navigazione “Chrome”: nonostante lo abbia dotato della funzione “Do Not Track”, è la prima a fare spallucce dinanzi alle richieste degli utenti che chiedono di potersi muovere con discrezione e senza troppi occhi addosso.

A guardar bene (e sul sito informativo “All about DNT”, che esegue un puntuale monitoraggio, se ne può trovare diretto riscontro) sono proprio pochi gli insediamenti web a rispettare le persone che li visitano. La medaglia al merito va a Pinterest (social per gli appassionati di fotografia e di grafica), a Healthcare.gov (un portale del servizio sanitario statunitense), a Medium.com (piattaforma per la pubblicazione di testi e articoli online) e ad un altro esiguo numero di “virtuosi”.

La falsa sicurezza e il conseguente effetto placebo sono davvero pericolosi.

Uomo avvisato, mezzo salvato.

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