Una marea di bandiere dell’Unione europea ha riempito le vie del centro di Londra sabato, dove quasi 700mila persone – stando alle cifre degli organizzatori – hanno risposto all’appello del movimento “no Brexit” marciando per chiedere che si tenga un referendum sull’accordo finale per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, ancora in corso di negoziazione a cinque mesi dal divorzio. I manifestanti si aggrappano al sogno d’una rivincita del voto di due anni fa e all’auspicio di poter ancora restare nell’Unione, sullo sfondo delle incertezze e dei contrasti che minacciano l’esito dei negoziati di divorzio fra il governo conservatore di Theresa May e Bruxelles.

Partito da Hyde Park in una giornata di sole insolita per l’autunno londinese, il corteo è sfilato per il centro della metropoli britannica fino a raggiungere Parliament Square, di fronte a Westminster, dove ad arringare la folla hanno provveduto esponenti politici di vari partiti, dal sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan, al leader dei LibDem, Vince Cable, e celebrità dello spettacolo o della cultura. Ma i protagonisti veri sono stati coloro che hanno gonfiato il serpentone umano fra vessilli europei, cartelli colorati, slogan pungenti. Non solo sudditi di Sua Maestà, va detto, data la presenza visibile di migliaia di stranieri che sull’isola vivono (e che con la Brexit temono di vedere rimessi in discussione i loro diritti, a dispetto di tutte le rassicurazioni). E però soprattutto britannici: compresi molti giovani e giovanissimi che nel 2016 non avevano ancora 18 anni e oggi rappresentano una platea di nuovi elettori naturalmente euro-integrati, contrari fino al 90% – stando ad alcune rilevazioni – a una “chiusura” delle frontiere destinata ad avere un impatto inevitabile sulle loro vite, ma sulla quale non hanno mai avuto voce in capitolo.

I messaggi, indirizzati in prima battuta alla premier May (categoricamente contraria a qualunque idea di referendum bis) e ai Tory brexiteers alla Boris Johnson, hanno fatto sfoggio di fantasia: oscillando fra ironie, spirito combattivo, allarme e ira. Si è letto e sentito un po’ di tutto, dal ricorrente “Vogliamo il nostro Paese indietro” al più originale “Brexit is bananas” (la Brexit è da fuori di testa) o al calembour sulla parola U-turn (inversione a U) trasformata senza cambiare pronuncia in Eu-turn: dove Eu sta ovviamente per European Union.

I promotori, legati al movimento “Peoplès Vote” che fa campagna per “restituire la parola al popolo” dopo la fine del negoziato, hanno gridato al successo. Un successo impossibile da negare – e riprodotto sul web dalla cascata d’adesioni all’ombra dell’hashtag #PeoplesVoteMarch – visti i numeri. Numeri che Scotland Yard evita di confermare, ma nemmeno smentisce, e a cui si aggiunge la forza delle immagini. Per ricordare in riva al Tamigi folle ancor più oceaniche bisogna in effetti risalire all’epoca della guerra in Iraq, quando a protestare contro il governo Blair il totale dei manifestanti giunse a superare quota un milione (senza peraltro riuscire a rovesciare i giochi).

“Qui – ha sottolineato il sindaco Khan dal palco – non stiamo chiedendo un secondo referendum fine a se stesso, stiamo dicendo che quasi tutte le promesse fatte due anni fa non si sono concretizzate, poiché allora nessuno parlava di una “cattiva Brexit” o di un no-deal. E che in queste circostanze la cosa più democratica da fare è tornare dal popolo britannico e dargli il diritto di dire se accetta o meno il risultato dei negoziati”. Un’opzione che il rissoso governo May e il grosso dei Tories non mostrano del resto alcuna intenzione di accettare, malgrado la prova di forza della rumorosa piazza londinese. E alla quale lo stesso leader dell’opposizione laburista, Jeremy Corbyn, oggi assente, preferirebbe semmai le elezioni anticipate. Ma a cui comunque un flop negoziale con Bruxelles (desiderio inconfessato e inconfessabile della piattaforma “Peoplès Vote”) potrebbe almeno aprire una chance. Non senza la speranza concreta, sondaggi alla mano, d’un risultato diverso dal 2016.

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