“Ci dispiace ma qui non le possiamo garantire l’epidurale. Di notte non ci sono anestesisti e di giorno, essendo pochi, c’è il rischio che siano impegnati in sala operatoria per le urgenze”. È quello che i medici hanno detto a Sonia (nome di fantasia per tutelare la privacy della signora) qualche giorno prima di dare alla luce il suo primo figlio. Una storia da terzo mondo se non fosse successa all’ospedale Ramazzini di Carpi, in provincia di Modena. E se non si ripetesse tutti i giorni nella maggior parte degli ospedali italiani, dove il diritto a un parto dolce è solo sulla carta. Inserita il 18 marzo 2017 nei Lea (i livelli essenziali di assistenza che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire), oggi l’anestesia epidurale, che consente di controllare il dolore durante il travaglio e il parto, riesce a farla in media il 20 per cento delle partorienti, cioè una su cinque. Con le solite differenze geografiche: accessi più alti al Nord (25 per cento) e più bassi al Centro (tra il 15 e 20 per cento) e al Sud (10), come emerge dal censimento nazionale Siaarti (la principale società scientifica italiana di anestesia) appena presentato a Palermo. Il problema è la cronica e drammatica carenza di anestesisti: 4mila in meno all’appello. Il sindacato di categoria Aaroi-Emac il 15 ottobre ha denunciato l’emergenza in una lettera aperta alle future mamme, dopo aver raccolto l’ennesima testimonianza di una gestante che al Santissima Annunziata di Taranto si è vista negare il diritto del parto indolore per insufficienza di personale.

Senza un anestesista di guardia dedicato alla sala parto infatti, è impossibile garantire l’epidurale h24. Che nei punti nascita con più di mille nati dovrebbe essere una pratica da assicurare a tutte le donne che ne fanno richiesta, a tutte le ore. Come a Carpi. Dove “mancando 6 anestesisti su 22 in pianta organica – ci fa sapere Matteo Nicolini, presidente Aaroi per l’Emilia Romagna – è difficile garantire il trattamento. Non per volontà dei medici quindi, ma per colpa dello Stato. Servono più borse di formazione specialistica altrimenti i bandi continueranno ad andare deserti”. Nell’indagine Siaarti, l’Emilia Romagna risulta comunque una delle regioni più virtuose, con un’incidenza della partoanalgesia del 27,7 per cento, insieme a Lombardia (26,6%), Liguria (26,5%), Veneto (26,4%), Friuli (21,7%) e Umbria (20%). “In Piemonte solo all’ospedale Sant’Anna di Torino l’epidurale è h24 – dichiara Gilberto Fiore, capo regionale del sindacato -. In alcuni ospedali è limitata dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 20, ma è raro che ci sia un medico libero per avviarla”. A volte si deve fare i conti con una certa resistenza culturale. “Ci sono donne riluttanti e ostetriche di vecchio stampo che non l’approvano – continua Fiore -, si pensa che il dolore faccia sviluppare un rapporto più intenso con il figlio”. Nel Lazio il ricorso all’epidurale avviene nel 35 per cento dei parti vaginali, tutti però concentrati nella capitale, l’unica che offre questa tecnica. “A parte Frosinone, che l’ha introdotta solamente da giugno, nelle altre province non se ne parla” specifica Maria Grazia Frigo, responsabile del servizio di anestesia del Fatebenefratelli, che gira l’Italia per formare i colleghi sulla partoanalgesia. La Sardegna presenta due soli punti nascita con l’equipe attrezzata, quello di Sassari e di Olbia. L’Abruzzo, uno (Chieti). Il Molise, zero. “Come facciamo con un organico ridotto di otto unità? Alle pazienti lo spieghiamo che non dipende da noi e tante decidono di andare a partorire a Roma o a Foggia”, racconta David Di Lello, presidente regionale Aaroi.

L’Oms all’inizio di quest’anno ha stabilito in un documento che la partonalgesia è un diritto di tutte le partorienti. Ma l’Italia rispetto a tanti altri Paesi del mondo è parecchio in ritardo. In Francia riguarda il 75% dei casi, negli Stati Uniti il 67%, in Svezia il 66, in Spagna il 56,3 e il 24 nel Regno Unito. “Siamo indietro è vero, ma abbiamo fatto dei passi in avanti da quando l’epidurale è entrata nei Lea, soprattutto al Sud – afferma Ida Salvo, coordinatrice del Gruppo di studio Siaarti per l’Ostetricia -. Per esempio, oggi in Calabria in due punti nascita, Cosenza e Reggio, non è più un diritto fantasma”. Con indubbi benefici per la mamma e il bambino. “Se la mamma è meno sofferente anche il bambino starà meglio – spiega la dottoressa -. E poi è dimostrato che dove aumenta il ricorso all’epidurale, il numero di cesarei non sale. Pensate che il 50 per cento delle donne che fanno il cesareo, un intervento con molte controindicazioni, lo richiede perché ha paura del parto naturale”.

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