Il “cinguettio” con cui il papabile nuovo presidente del Brasile ha provocato un trambusto mediatico nazionale e internazionale, recita così: “Confermo la mia intenzione, nel caso di vittoria alle elezioni, di procedere all’immediata estradizione del terrorista italiano Cesare Battisti, adorato dalla sinistra. Mostreremo al mondo il nostro impegno nel combattere il terrorismo, e consegnare i responsabili alla giustizia. Il Brasile merita rispetto”.

Il tutto suggellato da un altro tweet di Bolsonaro, scritto in italiano e dedicato al novello Matteo nostrano; ricambiando così la cortesia che Salvini gli aveva anticipato, inneggiando al successo del politico brasiliano dopo il primo turno elettorale delle presidenziali.

Battisti non appare, almeno per il momento, molto impaurito: afferma che non spetta al candidato dell’estrema destra decidere sulla sua sorte, bensì al STF (Supremo Tribunale Federale) che in realtà si era già pronunciato nel 2010 a favore dell’estradizione dell’ex terrorista, bloccata però dall’allora presidente Lula Da Silva alla fine del suo ultimo mandato.

Quest’ultimo aveva concesso a Battisti lo status di rifugiato politico. Un Santo in paradiso su cui ora non può più fare affidamento, essendo Lula in carcere a Curitiba, condannato a dodici anni per corruzione e riciclaggio.

Per bilanciare la caduta in disgrazia del suo difensore più celebre, sotto gli strali del Procuratore Generale è finito pure il presidente pro tempore Michele Temer, accusato di corruzione attiva, con i beni sotto sequestro.

Un anno fa, il 4 ottobre 2017, Battisti fu fermato alla frontiera con la Bolivia, mentre cercava di espatriare portando con sé un’ingente somma di denaro, oltre il limite consentito. In seguito a questo nuovo reato, Temer cercò in tutti i modi di cacciare l’italiano, senza però riuscirci. Il presidente a termine, era nei guai già da allora, per aver accettato denaro da Joesley Batista, il re della carne brasiliana. Per il momento, è ancora protetto dal Foro Privilegiado, di cui abbiamo illustrato le caratteristiche nel post precedente.

Quindi, finché rimane in carica non può essere giudicato dal tribunale federale ordinario, ma solo da STF. E’ ormai questione di tempo: tra poco più di una settimana, perderà questo privilegio e non è escluso che venga arrestato, come è successo a Lula.

Ne consegue che difensore e accusatore dell’ex guerrigliero si annullino a vicenda, entrambi screditati agli occhi della giustizia e dell’opinione pubblica.

La questione giuridica del caso Battisti rimane complessa, e non basterà un “tweet” a sbrogliarla. Già nel 2007, la diatriba su Battisti aveva deteriorato politicamente i rapporti tra Brasile e Italia, trascinandosi fino al 2011, quando il Supremo Tribunale capovolse le carte in tavola, votando contro l’estradizione che solo un anno prima aveva sostenuto. Il conflitto si allargò, con una polemica che oppose il Pdl di Berlusconi al PT (Partido dos  Trabalhadores) di Dilma Rousseff, ancora capo di Stato. Eppure, il nocciolo della questione è puramente giuridico.

In primis: il codice penale brasiliano prevede una pena massima di trent’anni, mentre quello italiano per reati di terrorismo e omicidio, entrambi contestati a Battisti, arriva fino all’ergastolo. Ergo, la magistratura federale violerebbe i suoi presupposti se consentisse l’estradizione di un ricercato nel paese di origine che contempla una pena maggiore del Brasile. Inoltre, anche se ha subìto la revoca dello status di rifugiato politico, Battisti ha sposato una donna brasiliana, cosa che impedisce l’estradizione secondo lo Statuto dello Straniero. Nel 2013, ha usufruito della prescrizione federale per i suoi reati.

E non basta: secondo il trattato di estradizione redatto tra Italia e Brasile, se nel paese richiesto (Brasile nel caso in questione) è intervenuta amnistia o prescrizione, il ricercato non potrà essere estradato nel paese richiedente (Italia). Inoltre, se lo Stato che riceve la richiesta ha serie ragioni per ritenere che ci sia una persecuzione politica o discriminatoria nei confronti del ricercato, può opporsi comunque. Quest’ultima pregiudiziale non avrebbe più motivo di esistere se Bolsonaro vincesse, considerando che la sua matrice politica è affine a quella del ministro degli Interni italiano.

Rimarrebbero però gli ostacoli giuridici, sempreché egli non voglia, una volta conquistato il potere, dare una svolta autoritaria alla politica brasiliana, viste le sue simpatie per il regime militare 1964-85. Il che appare abbastanza improbabile, in un quadro regionale e internazionale profondamente mutato da quei tempi che furono.

In realtà quel tweet che tanto ha sconvolto le redazioni appare più una smargiassata, in perfetta linea con quelle di Donald Trump e Matteo Salvini, che sono pervicaci utilizzatori dei 140 caratteri di Twitter, anche se il social network ha raddoppiato lo scorso anno la sua portata massima, ai fini di arginare il suo crollo nello stock-market. Nonostante ciò, i tre caporioni rimangono fedeli alla versione originale: sanno bene che per i loro limiti culturali e l’immediatezza degli slogan propinati – nell’ambito di una società liquida che poco riflette e molto si adegua alla violenza verbale – 140 sono più efficaci.

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