Nel terzo millennio più di cento ponti sono crollati nel mondo in modo disastroso. Quasi sempre sono stati ricostruiti. Come? Quando? Un confronto con l’Oriente sarebbe impietoso: il ponte tra Mumbai e Goa, crollato nell’agosto del 2016, fu ricostruito in 165 giorni. Per impatto mediatico e importanza strategica del manufatto, il caso più simile alla tragedia genovese è il ponte della I-35W a Minneapolis, 8 corsie che superavano le cascate di Saint Anthony del Mississippi a Minneapolis. Sul ponte, aperto nel 1967, transitavano 140mila veicoli al giorno. Crollò una sera d’agosto del 2007, provocando 13 vittime e 145 feriti. Tredici mesi dopo fu inaugurato il nuovo ponte a 10 corsie. Era stato ricostruito in base a un progetto avveniristico, aggiudicato dopo una gara a chiamata tra 5 compagnie. Il nuovo manufatto ha vinto più di 20 premi internazionali.

A Genova, il ponte sul Polcevera crollò il 14 agosto 2018. Il giorno dopo la concessionaria fece sapere con una nota di lavorare «alacremente alla definizione del progetto di ricostruzione del viadotto, che si completerebbe in 5 mesi dalla piena disponibilità delle aree». Il 16 il governatore e il vice-ministro dalle Infrastrutture dichiararono all’unisono che «entro il 2019 i genovesi avranno un nuovo viadotto autostradale sul torrente Polcevera al posto del ponte crollato» e, il giorno successivo, il primo alzò la voce, invocando «un commissario con poteri straordinari che rimetta in piedi il ponte nel più breve tempo possibile, pretendo che il ponte in un anno sia di nuovo in piedi». Ma 5 giorni dopo il crollo, il concessionario cautamente si corresse: non più 5 ma 9 mesi. Dopo 10 giorni il vice-ministro parlò di settembre per l’inizio della demolizione. A fine agosto il governatore prevedeva di finirla in ottobre. Dopo 20 giorni i partiti di governo s’impegnarono ad «assicurare che la ricostruzione avvenga in tempi non superiori a un anno».

Passò un mese e il governatore dettò su Facebook i nuovi «tempi previsti da noi: entro settembre inizio demolizione, entro novembre inizio cantiere». Nell’anniversario della breccia di Porta Pia, il sindaco parlò ai media di rispetto dei tempi previsti. Ma il giorno dopo rispose il governatore che il ponte andava ricostruito in 11-15 mesi ossia entro dicembre 2019, mentre per i sindacati ci volevano 10 mesi di lavoro. Il 30 settembre, un commissario in pectore, affermò alla stampa che otto mesi gli sembravano pochi, mentre il premier promise ai genovesi: «Faremo di tutto per consegnarvi il ponte entro la fine del 2019». Il Decreto Genova vide la luce (salvo modifiche parlamentari) dopo 45 giorni dalla tragedia, il commissario fu nominato dopo 51 giorni investendo del sindaco degli agognati super-poteri, le previsioni delle autorità promisero l’inaugurazione del nuovo ponte per la fine del 2019. Il 4 ottobre il sindaco-commissario affermò con coraggio che «le cose si possono fare in 12-16 mesi». Quattro giorni dopo il concessionario, durante un’audizione parlamentare, fece sapere che la società aveva «studiato diverse possibili soluzioni» e, tra queste, «quella con i tempi più accelerati» prevedeva circa 9 mesi tra demolizione e ricostruzione del viadotto.

La normativa europea prevede procedure semplificate «per ragioni di estrema urgenza derivanti da eventi imprevedibili dall’ente aggiudicatore», fatto salvo che «le circostanze invocate per giustificare l’estrema urgenza non devono essere in alcun caso imputabili all’ente aggiudicatore». L’interpretazione della norma si presta a un certo grado di soggettività. Ma, se dopo due mesi nulla ancora ancora deciso, per declinare il concetto di urgenza si dovrà ricorrere alla curvatura dello spazio cosmico. Se tutto andrà bene, la strada europea E80 da Lisbona a Gürbulak sarà di nuovo integra un anno e mezzo dopo l’interruzione. Se va male, chissà. Genovesi, italiani ed europei erano e sono preoccupati. Vorrebbero ricordare ai decisori che il meglio è nemico del bene, come disse Voltaire, perché fare presto e bene è nell’interesse di tutti. Il crollo è stato una tragedia con un’eco mondiale. La ricostruzione rischia di diventare una farsa tutta italiana. È un ponte di dimensioni tutto sommato modeste: poco più di un chilometro se rifatto del tutto, da 200 a 400 metri se s’integrasse una nuova campata nella struttura preesistente, rinforzata e rimodernata.

Il governo federale degli Usa aveva stanziato immediatamente 50 milioni di dollari sul totale di 250 autorizzato dal Congresso per sanare il vulnus di Minneapolis, 7 giorni dopo il crollo. Il Decreto Genova è costituito da quasi 21mila parole, quasi un quarto di quante compongono l’intera Divina Commedia. Una summa che spazia dal terremoto di Casamicciola del 2017 (non quello del 1883) all’uso dei fanghi di depurazione come letame artificiale. A Genova, dove non si parla mai a vanvera di soldi, aspettano ancora i primi spiccioli. Al luce della mia lontana esperienza di commissario alle dighe — troncata in anticipo da ragioni del tutto estranee alla pericolosità di certi manufatti un po’ antiquati — auguro al sindaco-commissario di trovare sulla propria strada meno impicci burocratici e più collaborazione istituzionale. E di costituire un team di tecnici competenti, efficienti e indipendenti in grado di recuperare il tempo perduto. È la sfida più ardua. Se le strade, i torrenti e perfino le infrastrutture più banali di Genova come lo stadio giacciano in condizioni che, a differenza dei palazzi dei Rolli, pochi “foresti” invidiano, un’intera generazione di politici, burocrati e tecnici non ha risposto in modo brillante alla sfida della storia.

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