Riassumendo i fatti: un’impresa (Ipb srl) attiva da tempo nel settore lavori stradali e movimento terra (nel 2008 aveva realizzato per conto del Comune di Milano la strada di scorrimento fra viale Fermi e il pronto soccorso dell’ospedale Niguarda, oltre 5 milioni euro di lavori), regolarmente iscritta nell’elenco della Prefettura di Milano riguardante le imprese non soggette a tentativi di infiltrazione mafiosa (white list), a partire dal 2017 presenta a catena una serie di richieste autorizzative per: a) stoccare rifiuti speciali, b) svolgere attività di intermediazione e commercio di rifiuti e c) bonificare aree inquinate. Richieste che vengono accolte nel 2017 dal Ministero dell’Ambiente, Albo gestori Ambientali.

Nel 2018 l’impresa cede un ramo d’azienda e il capannone di Bovisa a Ipb Italia che però non presenta regolari coperture fidejussorie all’Autorità pubblica garante (Città Metropolitana di Milano). Qualcosa non torna: la fidejussione è l’unico strumento di garanzia in mano al “pubblico” per rivalersi in caso di eventuali inadempienze operative. Scattano puntuali le contromisure: la procedura autorizzativa viene sospesa (giugno 2018) dal Ministero dell’Ambiente, e i tecnici di Città Metropolitana svolgono (luglio 2018) un sopralluogo, verificando che il deposito di stoccaggio è vuoto. L’attività di stoccaggio rifiuti dell’impresa rimane sospesa. Solo sulla carta, però: perché oltre due mesi più tardi, giovedì 11 ottobre 2018, durante un secondo sopralluogo i tecnici provinciali scoprono che il deposito di via Chiasserini è stracolmo di rifiuti di ogni tipo.

Immediata la segnalazione in Procura ma prima ancora che venga protocollata, domenica 14 ottobre, di notte, il deposito prende fuoco. L’ennesimo deposito di rifiuti in fiamme, in Lombardia, a Milano, periferia ovest.

Mentre scrivo queste note, la gola brucia a causa del fumo che continua a uscire dal deposito arrivando fino alle zone residenziali del centro. Come è potuto accadere? O meglio: preso atto che le istituzioni pubbliche hanno tutte svolto formalmente i propri compiti, quali ulteriori strumenti dobbiamo mettere in campo per scardinare la pianificazione di ecoreati che garantiscono enormi profitti a spese della collettività?

Per rispondere a queste domande, occorre capire la dimensione del problema. Il ministro Sergio Costa ha parlato del Nord Italia e della Lombardia come Terra dei Fuochi: una constatazione ovvia per chi segue le numerose inchieste che Dda milanese e diverse Procure lombarde stanno svolgendo da anni sui reati ambientali in Lombardia. In estrema sintesi: in Italia vengono prodotte ogni anno 164 mln di tonnellate di rifiuti, l’81% (134,4 mln t/anno) sono rifiuti speciali (non pericolosi e pericolosi), il 72% dei quali viene recuperato, cioè rientra nel ciclo produttivo come recupero di materia (si chiama “economia circolare” ed è cosa buona; poi su “come” avvenga il recupero, è un capitolo che merita approfondimento a parte). La maggior parte dei rifiuti speciali viene prodotta nelle regioni del Nord, e la quota maggioritaria in Lombardia: la quota residua di rifiuti speciali destinata a stoccaggio e smaltimento finale è pari a circa 19 mln/tonnellate/anno; il numero di impianti di smaltimento esistenti in Italia sono circa 400, per una capacità complessiva di 11 mln/ton/anno. Il trasporto transfrontaliero registra 3,5 mln/ton/anno di rifiuti speciali espostati e 5,5 importati. I conti non tornano, evidentemente: e questa è manna per gli ecofurbi.

A questo si aggiunge un’altra criticità propria delle aree del Nord: la presenza di numerosi immobili, anche a ridosso dei nuclei urbani, un tempo destinati ad attività artigianali e produttive, poi dismessi o sottoutilizzati, troppo facilmente riconvertibili con procedure autorizzative a depositi per stoccaggio e trattamento rifiuti.

Terzo aspetto. Certamente la criminalità organizzata è parte attiva nel settore (generalmente su un piano defilato). Ma la maggior parte dei reati ambientali in Italia sono reati di impresa. Per una ragione banale, fondata sull’analisi costi/benefici: i potenziali guadagni sono immensamente superiori ai rischi di essere scoperti (e all’eventuale prezzo da pagare, qualora si venga scoperti).

Tornano all’incendio di Milano e alla domanda “che fare”: esistono diverse iniziative, a più livelli istituzionali e su diverse scale territoriali che vanno potenziate e soprattutto coordinate in modo organico. Coinvolgendo anche la cittadinanza. Potenziando le strutture investigative (la Polizia Locale di Milano ha un ottimo Nucleo Ambiente). Ne parleremo in un incontro pubblico, in Municipio 8 a Milano, lunedì prossimo 22 ottobre.

Ma il primo passo è conoscere, quindi usare, gli strumenti di legge che già esistono. Ne cito uno: la legge 689 del 1981, articolo 13 (Atti di accertamento), scritto in burocratese ma molto chiaro: “Gli organi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro possono, per l’accertamento delle violazioni di rispettiva competenza, assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica”.

Nel 1981 non esistevano ancora i droni, strumento utilissimo per prevenire gli ecoreati. Ma forse sarebbe bastata una semplice telecamera, all’ingresso del capannone di via Chiasserini, installata ai primi segnali di inaffidabilità da parte dell’operatore, per prevenire quanto è accaduto.

Oggi diversi impianti di stoccaggio e trattamento rifiuti sono dotati di telecamere. Ma sono quasi sempre rivolte verso l’esterno, per controllare l’eventuale avvicinarsi di curiosi…

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