Licio Gelli, il progetto della Lega meridionale sostenuta anche dalla criminalità organizzata pugliese in cambio dell’aggiustamento di un processo tramite Giulio Andreotti. Ma anche il piano di attentati che servivano a far cadere la Democrazia Cristiana e il tentativo della cosca Morabito di Africo di cercare un killer per uccidere il magistrato Ilda Boccassini che, a Milano, nel 1990 stava indagando su una finanziaria, di proprietà di Marcello Dell’Utri, che era legata al gruppo Fininvest ma che era utilizzata dalla ‘ndrangheta, da cosa nostra e dalle altre mafie per pagare le tonnellate di cocaina provenienti dal Sudamerica. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, il collaboratore di giustizia Gianfranco Modeo racconta quei mesi confusionari, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, che hanno anticipato il periodo delle stragi in Italia. Interrogato nel corso del processo “’Ndrangheta stragista”, che vede imputati i boss Giuseppe Graviano e Rocco Filippone con l’accusa di essere i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo, il pentito pugliese mette in fila i discorsi ascoltati in carcere, i pizzini che arrivavano da fuori e i rapporti coi boss calabresi come Umberto Bellocco, Franco Coco Trovato e Pasquale Morabito.

Attentati con bombe e autobombe e il piano per distruggere la Dc
Era il 1991 quando “noi tutti eravamo detenuti”. Fratello del boss di Taranto “Tonino il Messicano”, ucciso nel 1990, quando usa il plurale il collaboratore di giustizia fa riferimento anche ai suoi fratelli Riccardo e Claudio Modeo. Quest’ultimo, all’epoca, era detenuto nella casa circondariale di Bari dove “fu portato – sono le parole del pentito – in una sezione di punizione e lì trovo un personaggio, un certo Aldo Anghessa”. Si tratta dello stesso Anghessa, ex appartenente ai servizi segreti poi arrestato a Como per un traffico di armi. Ancora oggi deve scontare altri 2 anni e mezzo di carcere ma è latitante da qualche parte in Africa.

Claudio Modeo e Aldo Anghessa finirono in cella insieme. “Questo cominciò a chiedere. Aveva fatto altre proposte ad amici e ad altri gruppi. Veniva dal carcere di Lecce dove aveva agganciato altre famiglie. Aldo Anghessa disse che si stavano preparando a far cadere tutti i partiti, dalla vecchia Democrazia Cristiana alle famiglie malavitose del territorio che davano fastidio. Si diceva che bisognava preparare questi tipi di attentati con bombe e autobombe. Io dicevo a mio fratello di stare attento. Mio fratello Claudio era spaventato perché questo Anghessa conosce tutto e tutti”.

Un piano di distruzione, infatti, che “doveva coinvolgere varie organizzazioni criminali: siciliani, pugliesi e calabresi”. In questo contesto, in sostanza, Anghessa sarebbe stato una sorta di ambasciatore dei corleonesi. Tutte le famiglie mafiose erano state contattate e tutti erano a conoscenza del ruolo di Anghessa. Tanto che un giorno nel carcere di Cuneo, dove era detenuto Gianfranco Modeo, arrivò un messaggio dal boss Francesco Coco Trovato al quale il pentito, prima di collaborare, aveva chiesto il “favore” di uccidere a Milano un loro nemico di Taranto: “Coco Trovato mi chiese se eravamo stati contattati da Anghessa perché erano stati contattati anche loro. Mi mandò un’ambasciata con gente calabrese che stavano con me a Cuneo. So che erano due fratelli. E io gli mandai la risposta dicendo di si. Gli dissi che non avremmo mai accettato quel tipo di discorso”.

Licio Gelli, la Lega Meridionale e il processo che doveva aggiustare Andreotti
In relazione al progetto delle stragi, nella deposizione del collaboratore Modeo spunta il nome del maestro venerabile della P2 Licio Gelli che sarebbe andato anche a Palermo per incontrare i corleonesi. “Mio fratello Claudio – ha dichiarato in aula bunker il pentito – mi fece riferimento a Licio Gelli. Questo discorso mi fu accennato in un colloquio con Marino Pulito che era uno dei nostri factotum, un nostro braccio destro. Marino Pulito mi parlò di Gelli che in quel periodo venne pure a Taranto a trovarlo e chiese al nostro gruppo se potevano appoggiare un partito che volevano fondare”. Il faccendiere massone voleva il sostegno elettorale della malavita pugliese per il movimento leghista meridionale.

“Non siamo stati noi a cercare Gelli. – ha spiegato Modeo – Ma è stato Gelli a cercare noi tramite un certo Serraino che ha contattato Pulito”. Quest’ultimo, in un primo momento, aveva declinato l’offerta perché in quel momento la cosca di Taranto era impegnata nel tentativo di ottenere la revisione del processo a Gianfranco (il futuro collaboratore) e Riccardo Modeo. E a quel punto che Serraino avrebbe detto: “Ce l’ho io l’aggancio”. “Gli fece il nome di Gelli – ha rivelato il pentito – che scese a Taranto per incontrare Pulito. Gelli gli diede garanzie che avrebbe fatto buttare giù il processo e saremmo stati scarcerati io e mio fratello Riccardo. Marino Pulito mi disse che dovevano rivolgersi ad Andreotti. E io gli risposi che quel canale già l’avevamo provato. Anzi noi abbiamo provato nei vari gradi di processo e abbiamo toppato perché ci hanno abbandonato. Pulito mi disse: ‘A Gelli non gli può dire di no’. Questa è la risposta che mi dette Pulito”.

In effetti, stando a quanto ha raccontato in aula dal pentito Modeo, il tentativo di Gelli per ottenere la revisione del suo processo attraverso Andreotti non sarebbe stato l’unico: “I nostri canali, indipendenti da Gelli, erano tramite un nostro politico che per tanti anni gli abbiamo fatto campagna elettorale, un certo onorevole Amalfitano. Noi avevamo tentato il contatto con Andreotti tramite questo onorevole della Democrazia Cristiana. Avevamo rapporti con lui tramite un altro dei nostri factotum. Ci avevano garantito mari e monti e poi, alla resa dei conti, ci hanno girato le spalle. Stiamo parlando ancora del primo grado, quindi stiamo parlando del 1986-1987. Ecco perché ci sembrava strano, dopo tanto tempo, come faceva Andreotti a intervenire. Se ci aveva detto che non era possibile…”.

Ma a Gelli non si poteva dire di no. E il venerabile avrebbe addirittura accompagnato il braccio destro del boss, oggi pentito, direttamente dall’allora presidente del Consiglio: “So che si sono recati a Roma e Pulito ha assistito al colloquio Gelli-Andreotti. So che hanno avuto un appuntamento in un albergo ma non so dove”.

La finanziaria di Dell’Utri in mano ai clan e il progetto di uccidere Boccassini
Non solo stragi, politica e processi da aggiustare. Nel racconto del pentito Gianfranco Modeo spunta anche il tentativo di fermare un’inchiesta uccidendo il pm di Milano Ilda Boccassini. Doveva essere proprio Modeo a mettere a disposizione il killer alla cosca Morabito di Africo. Gliel’aveva chiesto Pasquale Morabito con cui era detenuto. Ma si è rifiutato. Un giorno il compagno di cella venne chiamato per un colloquio con il suo avvocato. “Andò dall’avvocato Mandalari – ha ricordato il pentito – e, quando ritornò dentro, disse: ‘Sai compare c’è una situazione un po’ critica. C’è un magistrato qui a Milano che sta facendo delle indagini in cooperazione con magistrati svizzeri e che stava per arrivare a delle finanziarie che facevano parte di Mediaset. Se fosse venuto a galla questo fatto, si sarebbe creato un putiferio, sarebbe caduto un castello”.

Il collaboratore di giustizia nomina Mediaset ma poi si corregge: “Mi riferisco al gruppo Fininvest. Si trattava di una finanziaria italiana e di altre che stavano in Svizzera. Si sarebbero scoperte tutte le transazioni che si facevano con il Sudamerica, i vari pagamenti per pagare la merce, la droga, eroina e cocaina”. Dell’inchiesta della Procura di Milano, Pasquale Morabito “lo apprende dall’avvocato Mandalari. A lui interessava bloccare un magistrato, un pubblico ministero della Procura di Milano, la dottoressa Boccassini. Era lei che aveva le indagini sulle finanziarie. E aveva l’indagine anche su di lui e per questo si doveva bloccare per forza altrimenti sarebbe uscito tutto a galla. Mi chiese un killer che poteva operare su Milano. Sapeva che noi avevamo dei ragazzi che potevano operare a viso scoperto. Mi disse che uno dei nostri ragazzi aveva utilizzato anche lui questa finanziaria di cui non ricordo il nome. Non vorrei sbagliarmi ma mi fece il nome di Dell’Utri. Mi disse che lui era uno dei proprietari. Era questo che la Boccassini non doveva scoprire. Diceva che gli stava già addosso. Era questione di giorni. Mi disse: ‘Siamo in un mare di guai. Se riesce a trovare questo filone, qua casca tutto giù”.

La preoccupazione del clan calabrese era giustificata dal fatto che non erano solo i Morabito a utilizzare quella finanziaria per saldare i narcos sudamericani: “Era un canale che serviva anche ad altre famiglie per pagare pure il traffico delle sigarette e tanto altro. Quindi di tutto e di più passava da questa finanziaria. Morabito sapeva di questo canale ma la notizia che stava per essere scoperto dalla Procura la portò l’avvocato Mandalari. Fu lui a parlare dell’urgenza di fermare la Boccassini. Era la prima volta che sentivo parlare di questo magistrato. Poi nel tempo ne ho sentito parlare nei telegiornali, ma all’inizio non sapevo chi fosse”.

L’ipotesi di uccidere un pm fu subito scartata da Gianfranco Modeo che ha ricostruito in aula l’intera conversazione con il boss di Africo: “Gli dissi a Morabito: ‘Ma vi rendete conto di cosa volete preparare? Avete capito che succede se ammazzate un magistrato a Milano?’. Lui disse: ‘Il rischio vale la candela’. Io gli dissi: ‘Noi non ci stiamo. Io non ce la faccio. Non ti do nessuno, il problema te lo risolvi da solo’. Non gli diedi il killer che mi aveva chiesto. Una cosa è fare un favore se si tratta uno di noi, un pregiudicato. Uno vale l’altro per terra. Alzare il tiro è un’altra cosa”.

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