E se la nuova frontiera commerciale dell’automobile fosse quella africana? Secondo le previsioni dell’Opec, entro il 2040 il parco auto circolante del continente nero crescerà del 50%, arrivando a 90 milioni di veicoli, contro i 59 di oggi. Numeri che fanno gola a colossi come Volkswagen, Renault, Peugeot, Hyundai e Toyota, vogliosi di colonizzare le strade africane coi loro prodotti: per questo il Wall Street Journal è convinto che l’Africa possa diventare un nuovo “hub” per la produzione mondiale di mezzi a quattro ruote.

Le multinazionali tedesche, francesi e asiatiche hanno già iniziato a investire miliardi di dollari nel continente (quelli diretti al Nord Africa sono passati da poco meno di 5 miliardi nel 2011 a 12 miliardi nel 2016, in gran parte provenienti dai costruttori di automobili), ammaliati dalle feconde prospettive di crescita, irraggiungibili nelle aree geografiche dove la motorizzazione di massa ha già fatto il suo corso, come in Europa e America ad esempio. Quindi la prospettiva di un’industria automobilistica africana che produce auto per il mercato locale diventa allettante, con chiari benefici per la logistica e in barba ai protezionismi economici di ritorno.

In pole position c’è il Marocco, che già fabbrica più auto di quante se ne facciano in Sudafrica – dove anche costruttori come BMW hanno le proprie “ambasciate” – e presto potrebbe sorpassare anche l’Italia. Inoltre il Marocco si sta ritagliando un ruolo di spicco come fornitore di componentistica per le industrie spagnole e rifornisce costruttori come Ford. Senza contare che negli ultimi cinque anni la Renault – che vanta il 40% del market share marocchino – ha costruito nel Regno due impianti di assemblaggio (sfornano oltre 200mila auto l’anno) e Peugeot avrà il suo polo in Marocco entro fine anno.

Va detto, però, che la manifattura africana gode pure di misure protezionistiche locali: non a caso in Algeria possono essere vendute solo le auto prodotte in loco e ciò ha spinto Volkswagen a realizzare una linea di assemblaggio a Relizane (che si aggiunge a quelle che VW possiede in Kenya e Ruanda. Presto ne inaugurerà anche in Nigeria e Ghana). “Vediamo il potenziale della regione: è un mercato molto giovane che sta diventando sempre più industriale”, sostiene Erdem Kizildere, un manager della Seat (gruppo Volkswagen) e direttore di un impianto in Algeria che nel 2018 fabbricherà 50 mila veicoli.

Tutto ciò al netto di problematiche economiche e politiche tipiche di molte nazioni africane, le stesse che fanno i conti con una corruzione dilagante e col terrorismo. Ma esiste il rovescio della medaglia, quello dei governi africani desiderosi di attirare gli investimenti esteri – anche per ripagare i prestiti infrastrutturali ottenuti dalla Cina – che stanno adottando misure favorevoli alle imprese, come la creazione di zone di libero scambio e l’offerta di incentivi finanziari. Alcuni Paesi stanno anche costruendo o espandendo strade, collegamenti ferroviari e porti.

Il Wall Street Journal mette poi l’accento su due questioni importanti. La prima è la validità stessa della “scommessa africana”: in passato Sudamerica, India e Russia erano state inquadrate come i nuovi El Dorado dell’automotive, ma negli anni hanno prosciugato le finanze dell’industria a quattro ruote. La seconda considerazione del WSJ è relativa all’impatto sociale che l’arrivo delle multinazionali automobilistiche europee potrebbe avere sulla popolazione locale: la tesi sarebbe che il miglioramento delle condizioni economiche africane e la ripartenza dell’indotto potrebbero costituire un solido argine al fenomeno migratorio e alla radicalizzazione islamica dei giovani magrebini disoccupati. Elementi da tenere in assoluta considerazione.

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