di Riccardo Mastrorillo

Il Consiglio dei Ministri ha approvato la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza: una sorta di programma economico del governo, propedeutico alla legge di Bilancio e alla Legge di Stabilità da approvare entro la fine dell’anno. Il testo non è ancora disponibile, ma già sono iniziate le polemiche e i commenti. La “manovra del popolo” l’hanno definita i 5 stelle.

Non ci sconvolge la notizia dell’indebitamento al 2,4%, giova ricordare che, in un articolo sul Sole 24 ore del 9 luglio 2017, Matteo Renzi, allora segretario del Partito democratico, propose, con un ragionamento condivisibile nelle premesse, ma devastante nelle conclusioni, un indebitamento del 2,9% per 5 anni, senza che nessun commentatore si fosse minimamente agitato.

Il problema, semmai, è cosa si intenda fare con questo indebitamento e soprattutto sul come. Leggiamo entusiaste affermazioni riguardanti un “reddito di cittadinanza” e, di contro, attacchi selvaggi che lo definiscono un incentivo per i fannulloni. Ci sembra in realtà che lo sbandierato “reddito di cittadinanza” sia, ancora una volta, l’ennesimo provvedimento di politiche del lavoro non, come ci ha più volte spiegato il filosofo Giovanni Perazzoli, un nuovo tipo di welfare.

Ai tanti sedicenti liberisti o, quantomeno, esperti improvvisati di economia, giova ricordare il concetto, promosso da Milton Friedman, di “imposta negativa sul reddito”. La cui finalità sarebbe stata la sostituzione del welfare, mentre noi riteniamo il reddito di cittadinanza una misura ulteriore di welfare. Il concetto di fondo resta lo stesso, con una differenza sostanziale, sia nella proposta del Padre dei liberisti, sia nella proposta originaria di reddito di cittadinanza e cioè l’essere misura fiscale l’una e welfare universale (cioè indirizzato automaticamente a tutti) l’altra.

Quello che ci scandalizza di questa “manovra del popolo” è semmai l’accrescimento dei controlli necessari per questo reddito di cittadinanza, con una maggiorazione del già enorme potere di discrezionalità che i burocrati hanno nello stabilire a chi spetti e a chi no. Una misura universale avrebbe il vantaggio di garantire l’uguaglianza, senza doversi sottomettere a lunghe trafile burocratiche o, peggio, a pratiche sconvenienti e tendenzialmente corruttive.

Il concetto di reddito di cittadinanza, e anche di imposta negativa, sono incompatibili con qualsiasi formulazione di flat tax, che invece parrebbe, seppur parzialmente, introdotta in questa manovra. La progressività della tassazione, oltre che essere stabilita in Costituzione, è uno dei capisaldi liberali, insieme alla semi abolita tassa di successione, al fine di garantire le uguali opportunità di partenza.

Una manovra del popolo coraggiosa e rivoluzionaria avrebbe dovuto ridurre drasticamente l’evasione fiscale, minimizzando, per esempio, la circolazione del contante, avrebbe dovuto introdurre un vero reddito di cittadinanza, quale strumento universale di welfare, avrebbe dovuto ripristinare le aliquote fiscali più alte, abolite anni fa dal centrodestra, e mai più toccate dalla sedicente sinistra.

Ci fa sorridere la notizia sbandierata dal ministro Tria, per cui le clausole di salvaguardia, anziché basarsi su aumenti di tasse, sarebbero sostituite da riduzioni automatiche delle spese. Sarebbe utile sapere quali spese? Perché se fossero toccate le spese relative ai servizi, sarebbe un altro modo indiretto per colpire i più poveri, considerato che in Italia ancora esiste una minima parvenza di progressività fiscale, che nel caso di aumento delle tasse colpirebbe, giustamente, in modo progressivo i ceti più abbienti, la riduzione dei servizi sarebbe così a svantaggio dei più poveri.

Infine ci ha letteralmente atterrito l’immagine del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio che si affaccia entusiasta al balcone di Palazzo Chigi. Non abbiamo mai amato i balconi e l’immaginario che ne fa da contorno, già mal sopportiamo il comizio che, come ci insegnava Gobetti: «è solo più l’arma dell’illusione dei nuovi capi, oltreché l’artificio per appagare un istinto di tribuni, è il sistema adottato per rafforzare una posizione personale». Ci è apparsa così l’immagine plastica di un tribuno, che indifferente a ciò che ha appena deliberato, si appaga della popolarità ed ebbro di godersi dall’alto del balcone la sua effimera gloria, dimentica il suo ruolo di servitore dello stato, che, a ben altre e riservate preoccupazioni, dovrebbe in quel momento rivolgere la sua vitalità. A meno che l’esultanza scomposta non derivasse dall’incredulità di esservi riuscito. In entrambi i casi è lecito, per i sani, preoccuparsi.

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