Dopo la Nota al Def il progetto di reddito di base – il basic income – sembra farsi più concreto, anche se molti aspetti sono ancora da chiarire. Non se ne conoscono con precisione i contorni, ma dovrebbe ispirarsi al vecchio d.d.l. n. 1148 presentato nella scorsa legislatura dai 5 stelle, che prevedeva un progetto molto avanzato, con un reddito di base pari ai 3/5 del reddito familiare medio, proporzionato al nucleo familiare, senza vincoli di durata (tre anni ma prorogabili) e limitatamente “condizionato” (revocabile solo in caso di rifiuto di partecipare ai percorsi di inserimento lavorativo e a progetti di utilità sociale, di non accettazione di tre proposte lavorative e/o di comportamenti elusivi o illeciti del beneficiario). In aggiunta, sembra previsto l’impegno dei percettori – secondo un modello di workfare – a lavorare otto ore a settimana in lavori socialmente utili.

Si tratta del primo intervento di questo tipo e con questa portata, nella storia del nostro paese, ma di reddito si discute da tempo. Ci sono associazioni internazionali che si battono da anni, in Italia e all’estero, per la sua realizzazione. L’eventuale sua applicazione, in modo non simbolico ed esteso, rappresenterebbe non una qualunque misura assistenziale, per quanto efficace, ma una riforma significativa del nostro welfare. Oltre a combattere la povertà, verrebbe colpito il ricatto subìto dalle fasce del mercato secondario del lavoro, il caporalato e fenomeni analoghi. L’obiettivo del decent work sarebbe forse più vicino. Assicurando a tutti una condizione di dignità e sicurezza, avrebbe un impatto decisivo sulla precarietà lavorativa ed esistenziale e sulle disuguaglianze sociali: una necessità oramai ineludibile, visti gli effetti disastrosi della crisi e delle politiche di austerity. Se poi consideriamo che l’introduzione di nuove tecnologie nel mondo della produzione sta già ora distruggendo tanti posti di lavoro, allora anche guardando al nostro futuro (prossimo) il basic income si profila come una svolta necessaria: se il pieno impiego è irrealizzabile e la disoccupazione tecnologica diviene strutturale, come si fa altrimenti a garantire una vita dignitosa, o meglio la sopravvivenza, a tutti?

Ebbene, se questa è la posta in gioco, il dibattito pubblico dovrebbe porsi all’altezza della sfida, al di là delle divisioni politiche. Invece non solo mancano riflessioni serie sui contenuti, ma l’attenzione è catturata da altro (lo spread, il rapporto deficit/pil, ecc.). Il tema del reddito andrebbe piuttosto rilanciato come punto qualificante della riforma dell’Unione europea, come propongono Van Parijs e Vanderborght (fra i maggiori studiosi di disuguaglianza e teorici del reddito universale) nel loro ultimo libro recentemente tradotto in Italia. Ma non sembra che prevalga uno spirito propositivo ed il reddito, storica rivendicazione dei progressisti, diventa ostaggio di una disputa politica paradossale, con argomenti tipicamente neoliberisti o richiami ai dettami dell’austerity anche da parte di chi dovrebbe tenersene ben lontano. Dagli ambienti governativi vengono invece prospettate soluzioni che sono, a dir poco, contrarie allo spirito del basic income, come l’idea di limitare il reddito ai soli italiani, escludendo gli stranieri che lavorano e risiedono permanentemente in Italia, in aperto contrasto gli obiettivi sociali del reddito.

In una sua recente intervista pubblicata da questo giornale, Luigi Di Maio ha corretto il tiro indicando nella residenza in Italia da almeno 10 anni il requisito necessario, ma ora, dopo il CdM che ha licenziato la nota al Def, si apprende che la platea prevista dei beneficiari dovrebbe essere pari a 6 milioni circa di “italiani” in condizioni di povertà. Insomma c’è grande incertezza sulla platea dei beneficiari. C’è però un inossidabile principio della Corte costituzionale che andrebbe considerato (v. sent. n. 187 del 2010 e n. 230/2015), secondo cui, in caso di provvidenze destinate a fronteggiare esigenze di sostentamento della persona, qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato “finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo” (come interpretato dalla Corte di Strasburgo, si veda il caso Bélané Nagy c. Hongrie, sent. 13/12/2016). Nell’ordinamento europeo, poi, direttive immediatamente applicabili impediscono qualsiasi discriminazione fra stranieri e cittadini (v. direttive n. 109/2003 e n. 95/2011) e c’è sempre l’art. 3 della Costituzione a presidio della parità di trattamento. Se non si cambia prospettiva, si rischia quindi che il reddito nasca già compromesso da vizi di costituzionalità, in grado – se e quando rilevati dalla Consulta – di far “saltare” le attuali previsioni finanziarie e mettere in discussione la sostenibilità del progetto.

Altra questione è poi la riforma dei centri per l’impiego e la creazione di un sistema informatico nazionale, tuttora irrisolta, nonostante che questo passaggio sia indispensabile per istituire il reddito, essendo i centri le strutture competenti per le procedure di accesso ai benefici, che ricevono le domande degli interessati, prendendoli poi “in carico”, e gestiscono l’offerta di impiego a cui è condizionato il reddito. Qui si gioca la fattibilità e la stessa sostenibilità in futuro del reddito, ma siamo in alto mare e non si parla dei contenuti. La nota al Def dice solo che verranno potenziati, ma non si sa come e quando.

E ancora. Il Governo ha deciso di finanziare in deficit il reddito per i primi tre anni. Ma questo non significa non pagare più. Quali dovranno essere i “risparmi” o quali, eventualmente, i contributi di solidarietà richiesti e a carico di chi, resta tuttora un mistero. Su questo punto è meglio essere chiari. Per concretizzare il basic income e mantenerlo negli anni a venire non basta la ripresa economica, che semmai bilancerà la spesa nel lungo periodo, serve una vera solidarietà fra i territori e fra i gruppi sociali, e forse anche fra le generazioni. Ma il paese è pronto per questa svolta? Ecco un’ipoteca molto seria per il futuro del reddito (e non solo).

Problemi di costituzionalità, centri per l’impiego ancora fermi, doveri di solidarietà indefiniti. Non si può dire che manchino i problemi, di cui si dovrebbe discutere in modo appropriato al di là degli steccati politici, ma c’è un abisso fra l’importanza sociale della riforma e la qualità del dibattito pubblico. Con un’iperbole si potrebbe dire che molti, al governo come all’opposizione, siano inconsapevoli di ciò di cui parlano, non conoscano gli strumenti che maneggiano. La nascita del reddito avviene in circostanze così difficili e controverse che vederne la realizzazione sarebbe quanto mai sorprendente.

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