#EleNão (#LuiNo) è l’hastag in voga sui social brasiliani. Sono le donne le protagoniste del movimento contro il candidato alle presidenziali Jair Bolsonaro, l’esponente dell’ultra-destra in testa nei sondaggi con il 28% delle preferenze nelle intenzioni di voto. Il sostegno dei militari, il revisionismo storico sul golpe del 1964 che, con la destituzione di João Goulart, assicurò per un ventennio il potere alle forze armate – supportate dall’operazione Condor voluta dagli americani per reprimere le riforme progressiste nel continente -, e ancora il razzismo, l’apologia della tortura, la manifestata omofobia e una buona dose di “machismo” hanno portato alla reazione delle donne, con mobilitazioni di piazza che non si erano mai viste prima.

Il vento dell’autoritarismo soffia sul Brasile. Un’ideologia anti establishment, esaltatrice dell’estetica militare, sprezzante dell’avversario e del diverso, che ha trovato terreno fertile nelle pieghe di una crisi economica che da tempo attanaglia il Paese. Appaiono lontani gli anni del rilancio (2003-2011) segnati dalla presidenza Lula da Silva – ex sindacalista dal 7 aprile in prigione per corruzione a seguito del coinvolgimento nello scandalo Lava Jato (autolavaggio) per presunte mazzette ricevute da Petrobras, impresa leader nel settore petrolifero.

Il quinto Paese più esteso del mondo, la maggiore economia per Prodotto interno del continente sudamericano, una delle superpotenze emergenti (con la Russia, l’India, la Cina e il Sudafrica) è soffocato dalla stagnazione, dalla svalutazione monetaria, dal discredito istituzionale, dalla corruzione e dalle violenze urbane. Il 2017 è stato l’anno del nuovo record negativo di omicidi, si sono contati oltre 63 mila morti ammazzati, triste bilancio difficile da raggiungere perfino in Paesi in stato di guerra.

Incertezze recenti e piaghe ataviche capaci di incrinare la fiducia degli investitori. Il Brasile è uno dei principali attrattori per le imprese internazionali, una importante “riserva di caccia” negli anni della crisi per le grandi multinazionali spagnole, quali la potente banca Santander, l’assicuratrice Mapfre, la catena discount Día, la compagnia Telefónica e nel settore energetico Repsol e Iberdrola.

Un giro di affari che lo scorso anno ha fruttato diversi miliardi di euro, il solo istituto Santander, secondo i dati pubblicati lo scorso giugno, ha realizzato in terra brasiliana il 25% delle proprie entrate complessive (i proventi in madrepatria si fermano al 14,5% del totale). Repsol, da parte sua, con un portafoglio di oltre 9 milioni di utenti lo scorso anno ha estratto dai pozzi brasiliani 50mila 532 barili di greggio al giorno, quasi il 10% della produzione complessiva della compagnia.

L’instabilità ora allarma le imprese europee, quelle spagnole in testa. I giornali iberici scrivono apertamente del crescente rischio politico in Brasile, pericolo che si somma alle inquietudini per l’Italia. Non aiutano le dichiarazioni delle ultime ore di Bolsonaro, in un’intervista al programma Brasil Urgente, il candidato dell’ultra-destra ha detto che non accetterebbe un risultato diverso dalla sua vittoria. Non è contemplata la sconfitta quindi. O Globo, storico quotidiano carioca, in un editoriale di ieri titolava: Bolsonaro e a ameaça à democracia (Bolsonaro e la minaccia alla democrazia). Nelle piazze intanto spuntano i cartelli: Ditadura nunca mais (mai più dittatura).

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