di Jacopo Bencini

Dal 12 al 14 settembre San Francisco e la California hanno ospitato quello che molti hanno visto come l’evento climatico dell’anno – il primo Global Climate Action Summit – assieme alla COP polacca che si terrà a dicembre 2018. Visti i numeri, si tratta probabilmente del più grande evento non-Onu sul clima della storia. A rendere il Summit unico nel suo genere, l’attenzione specifica al mondo delle imprese private, della società civile e degli attori locali. In poche parole, gli attori climatici non-statali.

La città dove nel 1945 fu firmata la Carta delle Nazioni Unite ha voluto, tramite il Summit, lanciare un segnale forte al mondo e soprattutto al governo federale: nonostante la decisione di Donald Trump di ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi del 2015 – decisione non ancora operativa, ma altamente simbolica – in America ci sono stati, contee, città che si impegnano con determinazione per una società verde ed a basse emissioni, e per questo cercano alleanze con il mondo degli attori privati, sociali e provenienti dall’estero. Proprio a pochi giorni dal Summit il governatore californiano Jerry Brown ha colto di sorpresa la stampa internazionale firmando degli ordini esecutivi che di fatto contengono un piano per decarbonizzare l’economia e l’elettricità californiane entro il 2045. In California, la produzione di energia elettrica genera solo il 16% delle emissioni climalteranti totali; per essere effettivi, i piani di Brown dovranno affrontare con decisione il rimanente 84%. Un obiettivo a detta di molti troppo ambizioso (rendere la quinta economia del mondo indipendente da fonti fossili in circa 25 anni potrebbe difatti risultare quantomeno ostico), ma capace di dare al Summit sul clima quello slancio emotivo che manca ai negoziati Onu almeno dal 2015.

Il Summit è stato un evento di portata mondiale. Durante le tre giornate, migliaia di attori statali e non-statali, con una netta prevalenza dei secondi e fra questi delle imprese private, hanno riempito la città di eventi collaterali e iniziative. Mentre sul palco del centro congressi Moscone – location ufficiale del vertice, cui si poteva accedere solamente su invito – venivano annunciate decine e decine di iniziative di mitigazione e finanziamento, in tutta la città si sono tenuti seminari e workshop organizzati da università, Ong e investitori privati spesso molto specifici e dal tono forse più pratico di quanto non si potesse udire in sala congressi. Un gran numero di eventi collaterali che ha avuto il ruolo di tenere unità la comunità climatica non-statale internazionale ed ha permesso di mettere ad inventario quanto ottenuto fino ad oggi – rispetto ad un evento ufficiale di grande impatto e portata, ma riservato ad un pubblico ristretto.

Ma quanto incidono, in termini numerici, queste azioni e iniziative climatiche non-statali rispetto all’obiettivo determinato dagli stati a Parigi nel 2015, ossia di mantenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi dall’inizio del secolo, e se possibile entro un grado e mezzo? Molto, ma non abbastanza! Comunque la si veda, la crescita esponenziale in quantità e qualità dell’azione climatica non-statale e substatale non può che rappresentare un complemento rispetto alle azioni (legislative, politiche) di necessaria competenza dei governi nazionali. La somma dei progetti non-statali raggruppati nell’iniziativa cooperativa “America’s Pledge”, nata a seguito dell’annuncio di Trump di ritirarsi dall’Accordo di Parigi, come del resto il movimento “We are still in”, potrebbe portare ad una riduzione delle emissioni statunitensi del 17% rispetto alla promessa di riduzione del 26-28% contenuta nei documenti depositati sotto l’Accordo di Parigi. Nel paradosso di una nazione che potrebbe centrare il suo obiettivo climatico dopo essersi ritirata dall’Accordo si intravede, comunque, quanto l’azione non-statale necessiti di essere complementare a quella governativa, e non sostitutiva ad essa. Affinché le proiezioni sul clima cambino è il nostro modello economico e di consumo a dover cambiare, e difficilmente le grandi economie potranno raggiungere questi obiettivi senza un forte, vigoroso intervento della politica.

A metà strada fra i negoziati aggiuntivi di Bangkok e l’ormai imminente COP polacca di dicembre, il Summit di San Francisco ha riportato una ventata di freschezza nel mondo dei negoziati sul clima, ma ci si chiede adesso in cosa si trasformeranno le tante promesse, le nuove iniziative, il rinnovato spirito a fronte di un mondo occidentale, storico responsabile del cambiamento climatico, sempre più lontano dagli obiettivi ambientali che si era imposto nel 2015, con gli Stati Uniti teoricamente fuori dai giochi – nonostante una grande vitalità fuori da Washington, come raccontato – ed un’Europa che vede le proprie emissioni climalteranti in crescita (nel 2017 le emissioni europee sono aumentate dell’1,8% rispetto al 2016, quelle italiane del 3,2%).

Paradosso dei paradossi: mentre gli Stati Uniti potrebbero davvero raggiungere i loro obiettivi verdi senza una vera azione politica, la Germania un tempo campione delle politiche climatiche continentali quasi sicuramente mancherà del tutto quelli prefissati per il 2020, date le sue emissioni da tempo in stallo. In generale, potremmo non essere sulla buona strada – e recenti studi confermano l’inadeguatezza delle promesse presentate fino ad oggi dagli Stati. Non è inoltre possibile continuare a trascurare il tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici già in atto, aspetto tanto caro ai paesi in via di sviluppo e grande assente al vertice di San Francisco.

Il mondo ha bisogno di un’azione climatica vera e forte. Sebbene quello degli attori climatici non-statali sia un movimento vivo ed in veloce crescita, essi da soli non potranno mai sostituirsi ai governi in quanto a capacità di azione e penetrazione. Sta quindi a noi occidentali darci classi politiche degne di questo nome.

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