Il lavoro online non è necessariamente un miglioramento. Secondo un recente studio ILO (International Labour Organization, un’agenzia delle nazioni unite), infatti, la sua diffusione può portare a una riduzione nella qualità del lavoro e della vita dei lavoratori.

Il caso preso in esame riguarda grandi piattaforme specializzate che offrono lavoro online come servizio. Sono un intermediario tra il lavoratore e il datore di lavoro, che ha bisogno di persone che svolgano mansioni semplici e ripetitive. Attività che, almeno per ora, non è ancora possibile affidare a macchine. Un fenomeno che prende il nome di crowdworking e che sta diventando sempre più rilevante.

Si parla di “microtasks”, vale a dire microattività come inserimento dati, revisione di scritti, riconoscimento di oggetti nelle immagini, moderazione di commenti online e così via, fino alla creazione di contenuti originali. Chi ha bisogno di questi servizi in passato assumeva un gruppo di lavoratori per un tempo determinato. Oggi invece si può rivolgere ad Amazon Mechanical Turk (AMT) o altre piattaforme simili, che si propongono come un “mercato del lavoro online per piccole attività nel settore IT”. Un luogo di incontro, per dirla con le parole della stessa Amazon dove “Aziende e sviluppatori hanno accesso a una forza lavoro scalabile e on-demand“.

In teoria il lavoratore ha il vantaggio di poter lavorare ovunque nel mondo, con la massima flessibilità e comodità. E in effetti per molti è una buona occasione di svolgere una seconda attività o di arrotondare durante gli studi. Il sondaggio di ILO, che include 3.500 persone in 75 paesi, svela tuttavia una realtà differente. Per esempio, nel 32% dei casi questo tipo di lavoro è la fonte di reddito primaria e rappresenta il 59% del reddito totale della famiglia.

Nella maggior parte dei casi si tratta di lavoro a cottimo ed è pagato pochissimo. Per determinare le cifre ILO è partita dalla paga oraria ufficiale, e ha poi preso in considerazione il lavoro non pagato: la ricerca di nuove attività e nuovi committenti, lo svolgimento di attività rifiutate, il tempo speso per qualificarsi, la comunicazione tra lavoratore e committente, la stesura di recensioni per valutare il committente e così via. Tutte azioni che fanno parte del lavoro, ma che non figurano tra quelle pagate. Secondo la ricerca, per ogni ora di lavoro 20 minuti sono dedicati ad attività non riconosciute.

Risulta così che a livello globale la paga oraria nel 2017 è stata di 3 dollari, con una sostanziosa riduzione rispetto ai 4,39 dollari del 2015. E questo nonostante i grandi operatori come AMT (ma anche Crowdflower) abbiano leggermente aumentato; l’ingresso di nuovi concorrenti più aggressivi (Clickworker e Microworkers) ha fatto abbassare la media. In molti paesi il valore è inferiore a quello minimo obbligatorio.

Cifre bassissime, che stridono anche con la qualificazione media di questi lavoratori, che in gran parte hanno diplomi, lauree e in alcuni casi anche titoli post-laurea. A peggiorare il panorama c’è anche il fatto che alcune di queste attività generano a volte problemi di salute: il rapporto cita la moderazione dei commenti online, dove “una costante esposizione a contenuti violenti può produrre effetti psicologici a lungo termine sulle persone, che spesso portano a sintomi simili a quelli del disturbo da stress post-traumatico come insonnia, incubi, ansietà o allucinazioni. La serietà del problema non ha ricevuto attenzione adeguata da molte delle aziende del settore IT”.

Alcuni lavoratori inoltre devono rispondere anche a richieste eticamente discutibili, come la pubblicazione di false recensioni. A completare il quadro, ILO segnala una generale carenza di tutele sociali dovute al fatto che queste persone sono inquadrate come lavoratori autonomi (freelancers). Quelli che possono contare su una qualche forma di welfare, in genere, lo devono al loro lavoro principale – quando ce l’hanno – o a protezioni offerte dallo Stato.

“Nessuno di questi aspetti negativi è insito nel concetto di crowdwork”, si legge sul rapporto, “o nel mondo delle microattività in particolare. Al contrario, sarebbe possibile modificare i termini del microlavoro per migliorare le condizioni dei lavoratori”. Al momento tuttavia le iniziative si limitano ad alcuni strumenti creati da privati cittadini, mentre le aziende coinvolte – tanto le piattaforme di crowdworking quando i loro clienti – non hanno dato segno di voler fare cambiamenti.

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