Nei miei oltre vent’anni di insegnamento a Rebibbia ho visitato il reparto femminile solo in sporadiche occasioni. La mia impressione, poco più che superficiale, è che rispetto alle sezioni maschili si respiri una maggiore tensione. Come se ci fosse maggiore difficoltà ad accettare la restrizione delle libertà. Sarà che, mi son detto, la carcerazione dei maschi può godere, in taluni casi e entro certi limiti, persino di una qualche approvazione sociale. A Roma si diceva che non si potesse essere veri uomini senza aver varcato i tre scalini dell’ingresso a Regina Coeli. Sandro Pertini, Gramsci, più indietro Silvio Pellico, Marco Polo, più in là Nelson Mandela, Martin Luther King, fino a Pepe Mujica, illuminato presidente uruguaiano: tutti sono passati per le sbarre, ispirando mitologie letterarie e cinematografiche.

Ma le donne no: scontano, anche in questo campo, la plurisecolare subalternità per cui la detenzione femminile non può godere di alcuna dignità, alcun riconoscimento. Anzi, si è spinti a credere che le donne finiscano in carcere, per i reati più gravi, in quanto coinvolte in affari tipicamente maschili. Il capomafia, nello stereotipo, è un maschio dominante, il “padrino”. Oltre alla mancata accettazione del reato e della relativa sanzione, punto di partenza necessario di qualunque processo che conduca a riabilitazione e reinserimento sociale, le detenute scontano una mancanza di attenzione verso il loro mondo: il rischio che si crei nel già isolato universo carcerario un ghetto ulteriore, oggetto di profonda rimozione sociale.

C’è voluto un fatto di incresciosa violenza perché molti si ponessero, in questi giorni, il problema della maternità in carcere (come se la paternità potesse risolversi con la limitatezza delle telefonate e colloqui settimanali). Sono temi di difficilissima soluzione, che meriterebbero una trattazione approfondita a parte, con approccio il più possibile scevro da pregiudizi.

Ciò su cui mi preme invece concentrare l’attenzione è ancora una volta la situazione della scuola in carcere. Anni di riforme mancate o solo abbozzate hanno portato a un solo risultato tangibile: accorpamento degli istituti, reggenze dei dirigenti, riduzioni di orari e classi, avvilimento della funzione docente, quindi taglio degli organici. Come se le nuove norme, invece che dal Miur, fossero uscite dal Ministero dell’Economia, all’unico scopo di risparmiare risorse. Il numero di classi condizionato agli studenti frequentanti non tiene conto delle peculiarità della situazione e delle difficoltà di accettare iscrizioni in settori del carcere tra loro impossibilitati a comunicare.

Ne dico una per tutte, restando all’interno del femminile: nel reparto di massima sicurezza sono rinchiuse, per reati associativi, sedici donne, di cui ben nove hanno espresso la volontà di iscriversi a scuola. È per loro una delle pochissime opportunità di comunicare con l’esterno, incontrare esperienze per loro inesplorate, lontanissime dall’ambiente di provenienza, nei casi auspicabili far partire una revisione critica del proprio vissuto per poi indirizzare le proprie energie (e talvolta le loro indubbie capacità) verso modelli alternativi, positivi, socialmente utili alla lettera.

Niente da fare: la scuola blocca il numero di classi e non accetta nuove iscrizioni, nonostante la disponibilità e le sollecitazioni delle autorità penitenziarie, che ben conoscono la funzione trattamentale dello studio per chi altrimenti è condannato all’ozio e alla reiterazione dei reati.

Di questa e di tante altre questioni relative all’insopprimibile diritto allo studio vogliamo parlare in un confronto aperto a tutti i contributi: l’appuntamento è per mercoledì 26 settembre 2018 dalle ore 17.00 nel punto vendita del forno della Terza Casa di Rebibbia, in Via Bartolo Longo 82.

Rebibbia assemblea

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