Il rapporto dell’Onu sul genocidio in Myanmar della minoranza islamica birmana Rohingya (sono il 4%, accusati di essere “stranieri” col cattivo gusto di ribellarsi alle discriminazioni razziali) è stato reso pubblico ieri: 440 pagine degne di un film horror, con descrizioni e storie terrificanti. Sono frutto di un’indagine nel Paese asiatico, dove i buddhisti rappresentano il 90% della popolazione e detengono il potere (sia prima, quando c’era la dittatura militare, che oggi, in una sottospecie di regime democratico).

Quel rapporto riporta le tragedie di donne legate agli alberi e violentate, anche con canne di bambù, sigarette e cera bollente; di mine nascoste sulle vie di fuga dai villaggi assediati e bombardati; di bimbi costretti a rientrare nelle loro capanne in fiamme. Il responsabile della missione Onu ha detto al quotidiano inglese The Guardian: “Non mi sono mai trovato davanti a crimini così orrendi compiuti su scala così vasta”. Da anni decine di migliaia di Rohingya cercano di scappare alle stragi via mare, verso Thailandia, Malesia e Indonesia e spesso sono respinti; o via terra, verso uno dei Paesi più poveri del mondo, il Bangladesh, a maggioranza musulmana, che cerca di ospitarli.

D’istinto, mi viene da scrivere: “Se sento ancora qualcuno dire che i buddisti sono per definizione pacifisti e buoni (nel senso che sarebbe una contraddizione se non lo fossero) lo meno”. Soprattutto, la tentazione viene nei nostri Paesi occidentali in cui, se uno ti dice “Sai, sono diventato buddista…”, si aspetta un bacio sulla guancia. Pochi sono consapevoli di quanto sia difficile definirsi credente in qualcosa. Eppure già tra anni Trenta e Quaranta del Novecento il Giappone buddhista e shintoista mostrò la sua ferocia.

In Birmania gli stessi monaci che fino a sei o sette anni fa accompagnarono la gente nella lotta contro la dittatura militare in nome di Aung San Suu Kyi (premio Nobel per la Pace nel 1991, ora “consigliera di Stato” e forse ostaggio), oggi incitano alle stragi, complici di un apparato militare sempre sanguinario. Già nel 2013 un gruppo di religiosi incendiò la casa di una famiglia islamica, riportava la Bbc. Quei monaci da sempre si imbufaliscono di fronte anche alla sola ipotesi che ai Rohingya siano concessi alcuni diritti, nonostante vivano da generazioni in un Paese che era una colonia britannica.

Il bello, anzi, il brutto, è che solo noi occidentali ci sorprendiamo per la inattesa cattiveria. Siamo abituati dall’Ottocento a guardare l’Oriente attraverso una concezione mitica e artefatta. Come se nel corso dei secoli non si fossero massacrati tra loro anche i buddhisti, come se non lo avessero fatto i cristiani (magari protestanti contro cattolici e viceversa), gli indù, gli ebrei, i musulmani (magari sunniti contro sciiti e viceversa) e via elencando.

«Stiamo ancora a quanto scriveva un qualunque capitano che col suo mercantile solcasse le acque del Sudest asiatico negli anni Trenta del secolo scorso, un Alexander Hamilton qualsiasi: i buddhisti “considerano che siano buone tutte le religioni che insegnano a essere buoni”, scriveva su A new account of the East Indies nel 1930», ha sottolineato già 5 anni fa Marco Del Corona sul Corriere.it. Diceva Trevor Ling (1920 – 1995), professore inglese di Religioni comparate ed esperto di religioni orintali: «Non esistono prove nette che, in Paesi dove il buddhismo sia religione di Stato, le guerre vengano considerate attività non-buddhiste» (Buddhism, Imperialism and War, 1979).

Insomma, non bastano il Tibet e il Dalai Lama (espressione di uno dei tanti buddhismi) a confermare l’opinione che esista una fede paciosa e pacifista (a parte il fatto che in Tibet si sono ribellati eccome, giustamente, contro i cinesi). In realtà la classificazione delle religioni in “buone” e “cattive” è sempre stata una bufala, già dai tempi delle Crociate, tanto per fare un esempio. Per venire al Novecento, i soldati tedeschi, inclusi quelli hitleriani, sulle loro cinture avevano la scritta “Dio è con noi” (Gott mit uns), così come protestanti e cattolici a Belfast erano certi di avere lo stesso Dio dalla loro parte quando si massacravano, fino a pochi anni fa.

Ancora oggi alcuni leader, ovunque e pure in Italia, usano il fanatismo e la paura del diverso per seminare odio e giustificare pregiudizi e bombardamenti a tappeto, “guerre sante” e stragi per le strade. Eppure _ lo scrivo da ateo che troverebbe molto più comodo credere – siamo noi umani che trasformiamo il divino in atti concreti: nel bene e nel male, sia quando siamo credenti sia quando non lo siamo, ma ci sentiamo di appartenere comunque a una tradizione. Insomma, i casi di Buddha o Dio o Allah, usati per giustificare la nostra umanissima cattiveria, dovrebbero fare riflettere tutti. In fretta, per favore.

Ps: beh, so già che sarò accusato da qualcuno di stare dalla parte dei “cattivi”. Appunto.

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