Chi li difende parla di legittima difesa innescata dalla rabbia per il salario troppo basso. Non parliamo di una rivolta in miniera, ma di una sorta di esproprio proletario in danno del colosso del commercio elettronico. I dipendenti della filiale cinese di Amazon hanno deciso di arrotondare il loro magro stipendio non rubando prodotti dagli scaffali degli enormi poli logistici, ma sgraffignando e rivendendo la merce più preziosa di cui dispone il proprio datore di lavoro: le informazioni personali della clientela.

La notizia – che ha lasciato di stucco chi è “giovane” – non sorprende affatto chi ricorda l’alba dei “white collar crimes” e che ben conosce le prime azioni illecite compiute dagli impiegati alle prese con il computer della scrivania d’ufficio. Una volta chi era arrabbiato con il “padrone” si vendicava sfruttando la tecnica del “data diddling”: l’inserimento di dati errati all’interno degli archivi elettronici colpiva al cuore i processi decisionali, recava danni economici e di immagine, comprometteva il futuro dell’azienda o dell’organizzazione, lasciava sostanzialmente un segno indelebile.

Il colpo inferto ad Amazon è di altra natura, più moderno e soprattutto maggiormente redditizio. Si è trattato di “leaking”, ovvero di un abile furto con destrezza che ha come obiettivo l’entrare silenziosamente in possesso del più ampio volume di informazioni senza che chi ne ha la legittima disponibilità possa accorgersi di nulla. Quei dati, se non precedentemente richiesti dall’immancabile committente, non faticheranno a trovare qualcuno interessato a sborsare qualunque somma pur di aggiudicarseli.

Il fenomeno è incredibilmente diffuso e molti contesti in cui regna incontrastata l’insoddisfazione del personale sono caratterizzati da costanti operazioni di sottrazione di dati che dovrebbero essere riservati. La circostanza dovrebbe far riflettere chi intende garantire la sicurezza tanto nel mondo imprenditoriale tanto sul fronte istituzionale.

Meditare? Meditare su cosa?

Si comincia con il dover prendere atto che i dipendenti sottopagati sono una mina vagante. Siamo lontani dalle adunate fuori dai cancelli di Mirafiori: i moderni operai della civiltà digitale non hanno una piazza o uno slargo in cui scendere a manifestare, ma hanno ben compreso che la manifestazione del loro malessere può trovare ben altro sfogo. Se chi viene schiavizzato nei campi di pomodori è costretto a porre in essere forme “tradizionali” di protesta, chi lavora nei call center con remunerazioni da fame può attenuare il dispiacere delle mortificazioni quotidiane con il più banale esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

Un “tabulato”, come si diceva una volta, costa solo qualche clic e può tramutarsi in una significativa integrazione del magro reddito. E chi non si accontenta di questa specie di “fuori busta”, ma vuole arricchirsi, deve soltanto industrializzare il processo di mungitura dei database a portata di mano.

La seconda constatazione è di tipo tecnico ed organizzativo. Quel che è successo (o sta succedendo o succederà) in Amazon o in altri mille forzieri rappresenta una condizione “quasi normale”, inevitabile se non si adottano misure di sicurezza (dalla protezione di archivi e applicazioni al tracciamento di chi-fa-cosa, fino al rilevamento di comportamenti anomali degli utenti e così a seguire) e iniziative di buona gestione (dalle attribuzioni di compiti e mansioni rispettosi della professionalità – e talvolta anche della semplice dignità – del dipendente alle turnazioni e alle politiche remunerative). L’assetto vulnerabile così prospettato spiega che i sistemi informatici pubblici e privati devono temere più un subdolo attacco dall’interno che un’aggressione telematica dai soliti pirati informatici.

Vabbe’, aspettiamo il prossimo “incidente” per ritrovarci a dire le stesse cose.

@Umberto_Rapetto

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