Oggi cade un anniversario importante, non solo per gli addetti ai lavori. Esattamente 30 anni fu firmata a Bologna la Magna Charta Universitatum, la summa dei principi europei del sapere. Era una giornata particolare, il nono centenario della più antica università del mondo occidentale, l’Alma Mater Studiorum o Universitas Bononiensis. Il 18 settembre 1988 i rettori di quasi cinquecento università europee firmarono solennemente un documento fondamentale, oggi sottoscritto da 816 università, non solo del nostro continente. Esso raccoglie i principi che costituiscono, sulla falsariga della Carta dei Diritti dell’Uomo, il comune denominatore del sapere e dell’educazione, laddove si afferma l’indipendenza assoluta e orgogliosa dal Potere, da qualsiasi Potere, come esclamò emozionato uno degli oratori in quell’occasione.

Da quel momento, questi principi avrebbero dovuto indirizzare le politiche educative a scala planetaria, perfino statunitensi, giacché hanno sottoscritto la Charta anche più di 20 università americane tra cui alcune prestigiose, come Berkeley e Cornell; e perfino UPenn, che fa parte della Ivy League. Dopo sei lustri, le università, europee e non, si sono mosse nel solco di questi principi? Con grande sconforto, sostengo che la risposta è del tutto negativa.

Negli ultimi trent’anni, il tradizionale modello di università, sotto accusa perché antiquato e inadeguato, è stato demolito. Lo ha sostituito un modello più “moderno”, in sintonia con il mercato globale e le sue esigenze. È stato un bene per l’umanità? Il nuovo modello ha mantenuto le promesse fatte, rispettando i principi della Charta? E risponde alle esigenze del futuro? Tanto gli esperti quanto la gente comune spesso rispondono in modo positivo a queste tre domande, senza essersi mai posti il problema di verificare se le promesse dell’università “moderna” siano state davvero mantenute. E non lo sono affatto.

Non è una questione soltanto italiana, nonostante le cosiddette riforme che da Berlinguer in poi hanno umiliato l’università del nostro paese, ma un tema globale. La rivoluzione utilitarista ha imposto ovunque un modello universale basato sul controllo del mercato, a scapito dell’antico e consolidato paradigma educativo fondato sulla ricerca della conoscenza. Le conseguenze sono il conformismo scientifico, il freno alla creatività, l’ipertrofia pseudo-scientifica, la precarietà accademica, ormai diventata un elemento dominante della vita universitaria; e la perdita della libertà accademica, grave perché riduce progressivamente le libertà democratiche e sostituisce la comunità dei cittadini capaci di pensare con un capitale umano formato da sudditi. Eppure, in tema di libertà, la Magna Charta recita:

«Essendo la libertà d’insegnamento, di ricerca e di formazione il principio fondamentale di vita delle università, sia i pubblici poteri sia le università devono garantire e promuovere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze, il rispetto di questa esigenza prioritaria».

Nella Magna Charta non si leggono parole come capitale umano, clienti, introiti commerciali e controllo di gestione – sempre sia lodato. I proclami della Charta rimangono però sulla carta, quasi fossero stati scritti sulla sabbia e proclamati al vento. Sono anche sicuro che – senza una nuova coscienza collettiva – qualcuno colmerà le lacune della Charta, inserendo nella costituzione delle università i concetti di capitale umano, di clienti e di controllo di gestione. Chi sarà costui? Certamente un epigono di Winston Smith, impiegato del Ministero della Verità e protagonista di “1984”, il romanzo di Orwell che ha ispirato il piccolo saggio che ho appena pubblicato, Morte e resurrezione delle università. Dalle università del Grande Fratello alla Slow University, poiché «chi controlla il passato, controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato».

A loro volta, proprio i cardini della “moderna” università – l’obiettivo esclusivo di istruire forza lavoro, l’egemonia delle reti globali e la stupidità della burocrazia – condanneranno l’istituzione al declino. Per questo bisogna pensare a un diverso modello educativo e scientifico, indispensabile per affrontare lo scontro con i limiti fisici che la storia del nostro pianeta prima o poi metterà di fronte all’umanità senza fare sconti. Se il modello dell’università “moderna” – di matrice “utilitaristica” o più volgarmente mercatistica – sta fallendo i propri obiettivi, bisogna creare a un nuovo archetipo, in grado di sostituirlo. Sarà giocoforza un modello nuovo; diverso dall’antico, pur glorioso modello accademico che si era sviluppato lungo tutto lo scorso millennio. Non è infatti pensabile che un nuovo paradigma possa riprodurre in modo acritico un modello che la storia aveva dimostrato comunque inadeguato.

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