L’annunciato provvedimento del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi di Maio, rivolto al fermo domenicale degli esercizi commerciali, la dice lunga sulla cultura di riferimento del giovane leader; in lampante conflitto con l’oggetto del proprio ministero. Dunque, nella totale sordità degli aspetti sindacali e retributivi, coinvolgendo lavoratori, che più di una chiusura degli esercizi attendevano interventi in materia di risarcimenti e diritti. Mentre la motivazione sbandierata per tale disposizione persegue tutt’altro: la tutela dello stereotipo di famiglia da giornalino parrocchiale che, dopo la messa, si riunisce attorno al desco festivo rinsaldando i vincoli parentali. La qual cosa – per inciso – ingenera forti dubbi sulla loro intrinseca saldezza, se si presume che il semplice richiamo dello shopping li metta così gravemente a repentaglio.

Al tempo stesso la dice lunga anche sulle mutazioni culturali che si sono verificate nella struttura mentale collettiva della società italiana, all’inseguimento del mito nostalgico di un ipotetico buon tempo antico mai esistito, eppure rassicurante; che si ripercuote sugli orizzonti di riferimento e – di conseguenza – sulle chiusure politiche. In quella che taluno ha definito “catastrofe antropologica”: nell’attuale fase del moderno, la regressione, riconducibile al puro istinto di sopravvivenza psicologica, quale rinuncia a misurarsi con le sfide del cambiamento. Ossia la fuga in un passato idealizzato come rifugio, rassicurante quanto asfittico.

L’ideale familistico di un chierichetto in estatica venerazione delle intermittenti liquefazioni ematiche di San Gennaro. Palese manifestazione di una religiosità primitiva di matrice rurale, in cui sopravvivono residui pagani attraverso forme sincretiche e sotto apparenze cristiane. Lascito di universi contadini sopravvissuti nelle aree non raggiunte dal disincanto indotto dall’industrializzazione; popolato da figure circondate da un’aura magica. Come quel Padre Pio da Pietrelcina di cui anche il nostro premier Giuseppe Conte si proclama devoto.

Il frate da anno mille, tra fanatismo e mistificazione, venerato da folle superstiziose protese a baciarne le stigmate. Padre Pio venne giudicato affetto da “disturbo istrionico dissociativo” nel referto stilato dallo psicanalista professor Luigi Cancrini (MicroMega 3/1999). Icona di quell’arretratezza culturale tendente all’irreale che legittima il giovanotto del profondo sud Conte a esibire curricula onirici, induce il fanciullesco sensale Di Maio a gestire il dossier Ilva (conclusosi senza particolari scostamenti dai risultati ottenuti dal suo predecessore) secondo modalità tra la sceneggiata napoletana e gli interminabili sfinimenti, puro gioco di contrattazioni al rialzo/ribasso, tipici di un Suq a Marrakech. Teatro in piazza che può sempre degenerare in furori dimostrativi da caccia alle streghe. Magari il rogo per gli untori mandati a inoculare la peste al ponte Morandi dai (pur esecrabili) Benetton.

Un mondo dove la paura del nuovo tende a incattivire. Da qui l’incontro solo apparentemente incongruente tra le famiglie provenienti da una società latifondista e patriarcale con il Matteo Salvini vicino all’oscurantismo valligiano; in azione su un’altra filiera dell’arcaicità di ritorno: la persecuzione dei nuovi marrani e moriscos (gli ebrei e i mori espulsi dalla Spagna dell’Inquisizione) nel revival delle angosce nevrotizzanti di mezzo millennio fa; impersonate pure stavolta dai venuti da fuori.

Anche in questo caso reazione di chiusura parossistica che riemerge dai secoli più bui. In cui, come ha scritto lo storico Jean Delumeau nella sua monumentale opera sulla paura in Occidente: “è la repressione a creare il colpevole”. E che ora riprende vigore nella corsa a ritroso in atto. Nello spurgo di umori che credevamo prosciugati; e invece sgorgano dalle viscere di un mondo perduto, imponendo le proprie regole primordiali a un Paese che ha smarrito il bandolo dell’avvenire.

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