Sono in giro con una famiglia americana con tre figli maschi adolescenti, stiamo scendendo verso la stazione di Corniglia. Il 16enne, quello di mezzo – per un motivo per cui i miei genitori mi avrebbero o ignorato o intimato di “non rompere i coglioni” (testuale e probabilmente in dialetto) – inscena un melodramma da moccioso viziatoLa madre accorre per mettere pace tra lui e il fratello più grande (17enne), lo guarda negli occhi vicina vicina e gli sussurra, mimando ogni gesto in versione yoga per bamboccioni: “Smell the flower (pausa inspirazione), blow out the candle (pausa espirazione)”. Io volevo avvitarmi come un derviscio e ruzzolare giù dalla scarpata, lanciarmi in un tuffo raggruppato nel vuoto, invece sono rimasta lì ferma, attonita con uno sguardo ebete da dopo rave.

Nell’ultimo anno le mie due figlie di quarta e seconda elementare hanno cambiato insegnanti svariate volte, anche all’ultimo episodio si sono verificati mini psico-drammi, alcune madri hanno vacillato sull’incerto destino che avrebbe atteso la carriera scolastica dei pupilli. Si chiedono disorientate chi sarà il sostituto e soprattutto se sarà all’altezza del compito che lo attende, come se il livello di inglese o le nozioni di scienze imparate alle elementari possa precludere l’ingresso a Yale.

La sensazione è che l’ingerenza dei genitori, in ambito scolastico e nella vita privata dei figli, stia raggiungendo livelli inauditi. Si mette il becco su tutto: sui voti dei propri figli e degli altri (immeritatamente più alti, of course), sul programma scolastico (che non si è mai letto), sulla mole dei compiti (troppi o troppo pochi). Queste valutazioni hanno sempre attraversato la mente dei genitori ma, a differenza di dieci anni fa, sulle chat di ora un pensiero estemporaneo diventa una lunga litania delirante alla quale seguono interminabili commenti e pareri non richiesti (rendiamo grazie al mio vecchio Nokia).

C’è un coinvolgimento frastornante, eccessivo, da parte dei genitori, una mania di controllo malsana che rischia di asfissiare i ragazzi incapaci di diventare grandi da soli. Soffocarli con le nostre aspettative da adulti su un voto percepito come ingiusto, su un insegnante che va via o una lite con un amico, implica non farli partecipare emotivamente in prima persona, non fargli giudicare cosa è grave e cosa no.

Potremmo sorprenderci nello scoprire che la proiezione della nostra scala di valori su di loro ha un impatto diverso, quello che per noi è importante per loro non lo è affatto; perché la nostra percezione è frutto di un processo razionale oltre che emotivo, di esperienza e raffronti. Ciò che per noi è una tragedia annunciata, per loro potrebbe essere un fastidio del quale liberarsi con una scrollata di spalle. Non c’è nessuna ragione di rubar loro quella spensierata (e già breve) leggerezza per inquinarli con le nostre lagne da tardoni.

Nel soffocarli con la nostra presenza, gli si impedisce anche di diventare e fare cose da grandi. Ci sono genitori che vestono i propri figli anche a otto anni, gli fanno la doccia, gli pettinano i capelli. Se saltano un giorno di scuola non sono i bambini a chiedere i compiti ma le loro efficientissime madri con un messaggio in chat. Se li mandano ai campi estivi, non sono neanche arrivati che già li chiamano per sapere se il viaggio è andato bene, se le stanze sono pulite, cosa mangeranno per cena. Il passo dal trovarsi con un adolescente insopportabile da trattare come un imbecille cresciuto è breve, brevissimo.

A una festa parlavo con la madre di una bambina di otto anni. Si chiacchierava dell’importanza di dare spazio ai proprio figli, di regalargli la libertà di diventare ciò che più vorranno, di lasciarli vivere dove vorranno e non all’ombra della casa natale. Lei si ferma e mi guarda: “Certo. Assolutamente. Io la lascerò andare dove lei vorrà”. Poi, dopo un’interruzione carica di emotività, mi dice: “Ma io la seguirò, perché non posso vivere senza di lei”.Ecco, forse il punto è proprio questo: riuscire a farsi una vita a prescindere dai figli.

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