Chi ha una casa in Marocco o un conto corrente in Kenya o in Perù – o magari non ha proprio nulla – ora a Lodi lo deve dimostrare attraverso una certificazione del suo Paese d’origine con tanto di traduzione in italiano legalizzata dal consolato o dall’ambasciata. Pena: il pagamento massimo delle tariffe per l’accesso alla mensa scolastica (5 euro al giorno) o al servizio di scuolabus. La decisione è stata presa mesi fa dall’amministrazione comunale guidata da Sara Casanova (Lega) ma con l’inizio dell’anno scolastico ha avuto i primi effetti su centinaia di extracomunitari e sui loro figli studenti. La decisione è sostenuta anche dal presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana: “Se si vuole basta andare in consolato e la dichiarazione la si ottiene subito. Non mi sembra una cosa sulla quale si debba creare una polemica. Il rispetto della legalità vale per tutti quelli che abitano in questo territorio”.

Alcune di queste famiglie hanno quindi organizzato oggi una manifestazione a Palazzo Broletto con il sostegno di tutta l’opposizione. Già mercoledì circa cento famiglie che non sono riuscite a produrre i documenti – e che quindi sarebbero tenuti a pagare la retta massima – hanno deciso di ricorrere ad una forma di protesta estrema, non portando i figli a scuola. Più di 120 bambini non hanno messo piede in aula. “In molti – spiega la consigliera Pd Simonetta Pozzoli, consigliera Pd ed ex assessore all’Istruzione – hanno protestato così; altri hanno deciso di portare a casa i bambini all’ora di pranzo, qualcuno fa a meno dei servizi”. “La modifica – assicura la sindaca Casanova – è stata realizzata seguendo semplicemente le normative vigenti ed è stata approvata dal Consiglio comunale a maggioranza”.

Tutto ha avuto inizio con la modifica del regolamento per l’accesso alle prestazioni sociali agevolate. Una delibera approvata dalla maggioranza di centrodestra ha previsto che “ai fini dell’accoglimento della domanda” vengono considerati “anche i redditi ed i beni immobili o mobili registrati disciplinati dall’articolo 816 del Codice civile, eventualmente posseduti all’estero e non dichiarati in Italia”. Non solo. In un altro comma si precisa che “i cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea devono produrre – anche in caso di assenza di redditi o beni immobili o mobili registrati – la certificazione rilasciata dalla competente autorità dello Stato esterno – corredata di traduzione in italiano legalizzata dall’Autorità consolare italiana che ne attesti la conformità”.

Il nuovo regolamento demandava poi alla giunta l’approvazione di un elenco dei Paesi in cui è “oggettivamente impossibile” per i cittadini acquisire le certificazioni: una lista limitata ad Afghanistan, Libia, Siria e Yemen. Una scelta fatta in base alla lista formulata da Ihs Markit, società privata che fornisce analisi socio-politico-economiche alle imprese. “Sono mesi – protesta la Pozzoli – che lottiamo per trovare una soluzione. Abbiamo presentato degli emendamenti, delle richieste per attenuare il provvedimento facendo un elenco preciso dei Paesi dove non si possono avere queste certificazioni. Abbiamo presentato una delibera che chiedeva una sospensione ma ha avuto parere tecnico negativo. L’abbiamo riformulata ma non è stata presentata ancora in consiglio. Ci sono Paesi dove si non si riescono nemmeno ad avere queste informazioni. In Senegal ed Equador non c’è un catasto informatizzato. Abbiamo in mano una dichiarazione del consolato dell’Equador che dice che non è possibile avere questi riscontri”.

Intanto l’Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione e l’associazione Naga hanno presentato un ricorso al tribunale di Milano contro il regolamento dell’amministrazione considerato “discriminatorio ai sensi del diritto nazionale e/o del diritto Ue”. Ad oggi solo 4 famiglie su 94 sono riuscite a produrre la documentazione richiesta. Il resto è in balia di questa decisione: l’attesa è per l’udienza del 6 novembre, mentre la speranza è  la calendarizzazione delle nuova delibera sperando nella sospensione”.

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