Non ci sarà nessuna riserva per le balene nell’Atlantico meridionale. Dopo venti anni di negoziati, il no è arrivato martedì da parte di Islanda, Norvegia, Russia e Giappone, quattro dei 66 paesi membri dell’International Whaling Commission (IWC) riuniti questa settimana – dal 10 al 14 settembre – a Florianopolis, in Brasile. Con 39 nazioni a favore, 25 contrarie e tre astenute, il voto di martedì non è riuscito a raggiungere la maggioranza richiesta di tre quarti, sottolineando la crescente frattura all’interno dell’organizzazione internazionale, istituita nel 1946 al fine di favorire uno sviluppo coordinato dell’industria baleniera.

La proposta, discussa fin dal 1998, era stata promossa da Argentina, Gabon, Sudafrica e Uruguay, con l’intento di ampliare le zone protette, già presenti nell’Oceano indiano e intorno all’Antartide. “Come ministro dell’Ambiente di un Paese che vanta il 20 per cento della biodiversità mondiale nelle sue foreste, ci sentiamo altamente responsabili per la gestione della nostra ricchezza nei confronti del mondo intero. E questo vale anche per i cetacei”, ha dichiarato il ministro dell’Ambiente brasiliano Edson Duarte, condannando il voto negativo. “Una delusione amara”, conviene Grettel Delgadillo, vicedirettore della Humane Society International, che senza mezzi termini attribuisce la colpa al “Giappone e i suoi alleati”.

Il problema sta nei numeri. Tutt’oggi una dozzina di paesi sono ancora favorevoli alla caccia alle balene e, nonostante l’imposizione di una moratoria sulle attività di natura commerciale, dagli anni ’80 a oggi, circa 57.391 esemplari sono stati uccisi con il pretesto della ricerca scientifica. Nel 2014, l’Australia ha – con dubbio successo – dichiarato guerra contro il Giappone davanti al Tribunale internazionale dell’Aia in merito alla violazione delle norme che regolano la caccia alle balene nell’Oceano Antartico. A due anni dalla sentenza, Tokyo ha impunemente ripreso le sue operazioni, sebbene con una quota di cattura ridotta.

Quattro anni dopo, Tokyo – dove la carne di balena viene considerata un cibo pregiato sebbene non comune – continua a rappresentare il principale elemento di rottura. Proprio in questi giorni l’IWC si trova a discutere la proposta con cui il Giappone punta a istituire un Comitato per la caccia sostenibile alle balene – compresa la “caccia di sussistenza” da parte degli aborigeni – che consentirebbe ai paesi di stabilire quote di cattura con un semplice voto di maggioranza, abbassando l’attuale la soglia di tre quarti. Questo renderebbe più facile la reintroduzione delle attività per fini di lucro, sospese con la moratoria del 1986. Appellandosi alla natura “temporanea” delle restrizioni, dal Giappone fanno sapere che la proposta riguarda esclusivamente le specie non più a rischio ed è anzi giustificata dall’aumento del numero di alcuni esemplari, come le megattere e le minke.

Le intenzioni del Giappone sono da tempo cosa nota. Lo scorso gennaio l’Agenzia della pesca, organizzazione afferente al ministero dell’Agricoltura, delle foreste e delle risorse marine, ha richiesto al governo l’inserimento di circa 900mila euro nel budget annuale per uno studio sul futuro della pesca commerciale, ventilando lavori di rinnovamento della flotta baleniera. Pochi mesi più tardi, le operazioni nipponiche sono finite nuovamente nel mirino delle associazioni ambientaliste a causa dell’uccisione di 122 balene incinte.

Difficilmente il Giappone riuscirà a bucare le resistenze di pesi massimi come Australia e Nuova Zelanda, convinte che il Sol Levante stia facendo leva sul suo ascendente economico per convincere le nazioni regionali più piccole ad avvallare la sua proposta. “Questo incontro è fondamentale: l’Iwc dovrebbe essere un organizzazione del XXI secolo, non un vecchio club di cacciatori”, spiega al Guardian Patrick Ramage, direttore del programma marino presso l’International Fund for Animal Welfare.

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