L’idea di Teorema, minuziosamente esposta da Pier Paolo Pasolini in un’intervista in versi, nel 1966, era quella della visita di Dio, che tutti coinvolge e domina. Una visita che esplica e rende dimostrabile la sacralità del reale; l’idea del teorema, per l’appunto. Il film venne girato a Milano, “la città più europea d’Italia”, quella dove la borghesia aveva volto più compatto e più aggiornato. In questo la sua irrealtà è completa: per dirla con Camilla Cederna, “orrende convenzioni, orrendi principi, orrendi doveri, orrenda democraticità, orrendo fascismo, orrenda oggettività, orrendo sorriso”.

Pier Paolo Pasolini dipingeva così quella borghesia e in tanto orrore pensava potesse scatenarsi il miracolo e realizzarsi il teorema. Chissà se il miracolo avrebbe vanificato tanto orrore? Il film si chiude con un urlo, che è ambiguità: contempera sentimenti liberatori e raccapriccio. Il vero miracolo, comunque, è che Dio appaia, null’altro. E Dio appare, sotto le spoglie di un giovane enigmatico e bellissimo, che conquista carnalmente un’intera famiglia.

Il giovane e misterioso ospite giunge alla dimora di una famiglia benestante di Milano, composta dal capofamiglia, proprietario di una fabbrica, la devota moglie che coltiva la fedeltà, il figlio vocato all’arte, incapace di “rispondere alla chiamata”, la figlia fragile e irrequieta. Vi è poi anche la servitù, e in particolare Emilia, che fa da contraltare contadino alla realtà borghese incanalata su binari rigidi e mortificatori. L’imposizione di norme comportamentali e sociali blocca inevitabilmente la libertà delle persone, che soffocano i sentimenti e si auto-impongono la prigionia del corpo.

E proprio attraverso il corpo, l’ospite inizierà alla libertà tutti i membri della famiglia, intrattenendo rapporti sessuali con ciascuno di loro – con conseguenze devastanti sull’equilibrio famigliare – e lasciando quella casa in maniera improvvisa, esattamente come vi era arrivato. Il padre, Paolo, lascerà la fabbrica agli operai, si spoglierà dei suoi averi e nudo correrà nel deserto. La moglie Lucia cercherà di nuovo quella passione che l’aveva travolta con Angelo, seducendo altri giovani ragazzi, non riuscendo però a “curare” la tristezza del suo animo. Il figlio Pietro comprenderà la sua omosessualità e la sua anima d’artista, la figlia Odetta si chiuderà nella sua fragilità impazzendo, la serva Emilia, in fine, leviterà come una santa grazie al suo animo sincero.

Girato nella primavera del 1968, Teorema fu presentato alla 29° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nel settembre di quell’anno. A Venezia il clima era di violenta contestazione, con giovani cineasti che inscenavano sit-in, con interventi polizieschi non scongiurati e non scongiurabili, con conseguenti proteste e controproteste. Il film venne proiettato per i critici il mattino del 4 settembre. All’inizio della proiezione Pier Paolo Pasolini aveva chiesto ai presenti di abbandonare la sala. “Dapprincipio avevo deciso di spedire il film alla Mostra perché Chiarini mi aveva promesso che sarebbe stato un festival senza premi, senza polizia e che si sarebbe tenuta la costituente del cinema, tutte cose che non sono avvenute”: di questo si doleva Pier Paolo Pasolini. Il pubblico degli specialisti, tuttavia, non disertò la proiezione di Teorema.

Nei giardini dell’hotel Des Bains, al Lido, seguì una conferenza stampa improvvisata. Pier Paolo Pasolini fu accusato di far le “capriole”: contestava, ma al tempo stesso trovava il modo di non sottrarsi agli obblighi contratti col produttore, si salvava l’anima con la contestazione senza, però, perdere d’occhio il box-office. Scavalcò con buona dialettica queste accuse, accettando le proprie ambiguità: si doveva a lui se la Mostra era stata costretta a essere quel che era, una Mostra di produttori e non di autori. Alla fine, fu così abile da risultare convincente.

In ogni caso, Teorema sconcertò: in esso, si sommavano Eros e Religiosità. Per la prima volta, un nudo maschile integrale, quello di Terence Stamp, appariva sullo schermo, in un film che si negava alla pornografia: Pier Paolo Pasolini intendeva esprimere la sacralità del corpo. Lo scandalo di quel nudo, insomma, serviva a mostrare quanto fosse intollerabile la vista dell’autentico di per sé: il corpo è divino e basta; esso è epifania rituale: di fronte al suo esplicitarsi si scatena la tragedia.

Sebbene premiato dall’Office Catholique International du Cinèma (Oicc), il giudizio su Teorema dell’Osservatore romano del 13 settembre 1968 fu tranchant: “La sconvolgente metafora con cui si è preteso di rappresentare il problema di un incontro con una realtà che vorrebbe essere simbolo d’una trascendenza è in radice minata dalla coscienza freudiana e marxista (…) Il misterioso ospite non è l’immagine di un essere che libera e affranca l’uomo dai suoi tormenti esistenziali, dai suoi limiti e dalle sue impurità, ma è quasi un demone”.

Quello stesso 13 settembre 1968, la procura della Repubblica di Roma sequestrò il film “per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava. Il 14 ottobre successivo, intervenne analogo provvedimento della procura della Repubblica di Genova. Il processo contro Pier Paolo Pasolini e il produttore Donato Leoni, trasferito per competenza territoriale a Venezia, giunge al suo epilogo il 23 novembre 1968: dopo un’ora di camera di consiglio, il Tribunale assolvette gli imputati dall’accusa di oscenità, statuendo che “Trattandosi incontestabilmente di un’opera d’arte, Teorema non può essere sospettato di oscenità”.

Lungi dal dimostrare, tuttavia, che la realtà del divino avesse coinciso con la sua rappresentazione, lo psicodramma giudiziario di Teorema, dimostrò, piuttosto, come il cinema di Pier Paolo Pasolini fosse epifania di un immenso feticismo sessuale, essendosi, in fondo, il teorema irrigidito in un enunciato.

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