Anche lui, Sharif Meghdoud, è un regista (di corti) dei quali – come molta altra gente – non conosco il valore artistico, non avendoli mai visti  – e difficilmente li vedrò. Sharif è il giovanotto dal pass giallo, quello riservato alle produzioni e non ai giornalisti (mi si consenta una piccola difesa corporativa) che ha gridato a Jennifer Kent, all’apparizione del suo nome sui titoli di coda di The Nightingale: “Vergogna, puttana, fai schifo”. Fattaccio accaduto a Venezia, durante il 75° Festival del Cinema, in una zeppa Sala Darsena.

Non mi sarebbe andato di fare pubblicità a un ragazzotto maleducato, ma tant’è il suo nome è già apparso su quotidiani e agenzie di mezzo mondo e ormai la frittata è fatta. Meghdoud si è profuso in scuse sulla sua pagina Facebook, poi eliminata: “Un rigurgito uscito da una bocca che non pensava ne a quello che diceva ne alle conseguenze” (a entrambi i né manca l’accento acuto, il che denuncia studi scarsi, almeno per quanto riguarda la grammatica italiana e i processi di percezione linguistica). Mentre la Shiva Production, che lo aveva accreditato a Venezia, lo ha cacciato con tempi da Speedy Gonzales e ha cancellato tutti i suoi interventi sul proprio sito; come pure la Biennale che, in inglese, internazionalizzando il malaugurato evento, ha fatto sapere su Twitter:


In sintesi: con un bel calcio nel sedere, abbiamo giustamente spedito a casa Meghoud e gli abbiamo tolto l’accredito, ipotizzo, in perpetuum.

Aggiungeva, l’urlatore di improperi, nel suo biglietto di scuse: “L’insulto viene fuori da un pensiero irrazionale e iperbolico di un cinismo che potrebbe andar bene (ma in realtà anche no) al bar tra amici ma è assolutamente fuori luogo all’interno di una mostra d’arte”. Pare un po’ confuso il ragazzo: “potrebbe andar bene… ma anche no”, “viene fuori da un pensiero irrazionale e iperbolico”. Ma che significa? Che il “vergogna puttana” e via insultando è stato un incontrollabile desiderio di esagerare? Il giovane torinese dovrebbe imparare a contenere la propria rabbia, proprio come tanti poliziotti delle serie crime americane. E a oggi, fra l’altro, non s’è capito il motivo scatenante: perché la Kent avrebbe dovuto vergognarsi? E di cosa? Mah! Mi pare che di questa, pur riprovevole vicenda, se ne sia già parlato fin troppo. E la ritirata con la coda fra le gambe di Meghdoud sia una sufficiente punizione. Mi auguro solo che non ce lo ritroveremo in qualche salotto televisivo.

La Kent ha risposto da gran donna qual è: “È assolutamente importante oggi reagire con amore e compassione all’ignoranza. È, fra l’altro, anche il tema del mio film”. Io credo che le critiche che hanno fatto più male alla regista australiana siano invece quelle, stavolta legittime e legittimate, di molti critici, anche bravi e noti: da Paolo Mereghetti (“Una storia eccessivamente esemplare con i caratteri dei personaggi talmente determinati da trasformarsi in caricature”) a Luigi Locatelli (“Un film orrendo, un rape&revenge nell’Australia selvaggia dell’Ottocento” […] che non si pone ‘la domanda su dove stia il limite, per un autore, per un’autrice, nella rappresentazione del male’”. Solo per citarne un paio.

Critiche che non condivido: la storia, di per sé, non poteva non sottrarsi alle tanto odiate e odiose violenze: “Il film non si svolgeva a Porto Cervo ai tempi dell’edonismo reaganiano, ma in una Tasmania del 1825 popolata da galeotti e galeotte spediti laggiù per scontare le proprie pene. Proprio in quella Tasmania dove i colonizzatori sparavano agli aborigeni come ai tordi e le prepotenze degli inglesi raggiungevano livelli inenarrabili” (chiedo venia per l’autocitazione dal sito di Nocturno). Avranno fatto più male alla Kent gli insulti del giovane Sharif o le critiche al suo film?

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