Il processo Aemilia verso la sentenza. Ai pm Marco Mescolini e Beatrice Ronchi è bastato un solo giorno per replicare alle arringhe difensive e per chiedere che ai quindici imputati ancora in libertà ai quali è contestato il capo 1, l’appartenenza alla ‘ndrangheta, venga applicata la misura cautelare in carcere se ritenuti colpevoli.

È la logica conseguenza delle pene richieste per i quindici, oltre 300 anni tra rito ordinario e abbreviato, che rischiano dunque l’immediata carcerazione dopo la sentenza prevista a metà ottobre. Tra i più noti di loro c’è Giuseppe Iaquinta, padre dell’ex calciatore della nazionale Vincenzo. Poi i fratelli Palmo e Giuseppe Vertinelli, definiti dal giudice dell’udienza preliminare Alberto Ziroldi “la forza economica in Emilia di Nicolino Grande Aracri”, arrestati e scarcerati ben tre volte, l’ultima in aprile dal Tribunale del Riesame, tra il 2015 ed oggi. Luigi Muto (classe ’75) e Antonio Muto (’71), appartengono al più numeroso gruppo famigliare rinviato a giudizio (ci sono otto Muto tra rito ordinario e abbreviati). Alfonso Paolini è l’uomo di casa in Questura, che nell’ultima dichiarazione spontanea ha raccontato di essere amico dell’ex questore Gennaro Gallo e di averlo accompagnato nel 2007 anche a Roma al Ministero tanta era la confidenza. Ma secondo il collaboratore Salvatore Muto è anche l’uomo che accompagnò la famiglia Berlusconi a portare illegalmente soldi all’estero. Gli altri accusati del 416 bis oggi a piede libero sono i due fratelli Francesco e Alfredo Amato, Antonio Crivaro, Moncef Baachaoui, Eugenio Sergio, Carmine Belfiore, Francesco Lomonaco, Graziano Schirone e Luigi Silipo. A loro si aggiunge l’unica latitante tra i 148 rinviati a giudizio a Reggio Emilia. È Karima Baachaoui, scomparsa la notte degli arresti del 2015, compagna di un altro imputato eccellente oggi in carcere: Gaetano Blasco.

Tra gli spunti più interessanti, nella replica del sostituto procuratore Beatrice Ronchi, la sottolineatura che la ‘ndrangheta moderna continua ad avere una struttura verticistica e che alla guida della cosca cutrese i fratelli Grande Aracri continuano a dettare legge, come dimostrano le tante occasioni in cui i capi emiliani sono dovuti scendere in Calabria per sanare conflitti. Ciò non toglie che in Emilia, dice Beatrice Ronchi, grazie soprattutto alla stagione violenta degli anni Novanta che ha definito valori e meriti nella cosca, alcuni personaggi abbiamo assunto ruoli di comando. C’è chi ha conquistato una autonomia territoriale, come Nicolino Sarcone a Reggio Emilia, Alfonso Diletto a Parma, Francesco Lamanna a Piazenza, chi ha scelto una autonomia d’azione su affari illeciti specifici senza confini geografici, come ha spiegato lo ‘ndranghetista “a statuto speciale” Antonio Valerio, oggi collaboratore di giustizia.

Nel pomeriggio è toccato al nuovo procuratore capo di Reggio Emilia Marco Mescolini che si è dilungato in particolare sugli affari del post terremoto e sulla famiglia Bianchini, titolare delle imprese edili modenesi che secondo l’accusa hanno fatto man bassa di appalti e subappalti sfruttando anche la forza e la convenienza della ‘ndrangheta. Ha citato l’amianto Mescolini, quell’amianto presente in decine di migliaia di tonnellate di macerie rovinate al suolo dopo le scosse del 20 e 29 maggio 2012. Amianto che andava prelevato e stoccato secondo procedure rigorose e che invece è stato addirittura utilizzato, per risparmiare e fare prima, a creare le basi delle scuole e dei nuovi fabbricati che andavano innalzati per fronteggiare l’emergenza. Quando l’Arpa scoprì il cemento amianto nel cantiere della nuova scuola del comune di Reggiolo, ricorda Mescolini, il titolare dei lavori Augusto Bianchini “si dissociò dai disonesti conferitori” a cui si era rivolto sostenendo che gli avevano rifilato materiale nocivo a sua insaputa. Ma solo qualche giorno più tardi è al telefono con la moglie Bruna Braga e non sapendo di essere intercettati i due o si confidano e si tradiscono sulle proprie responsabilità. Una frecciatina Mescolini la lancia anche alla comunità emiliana perché quando la Bianchini costruzioni srl riceve le interdittive antimafia prima dalla prefettura di Modena e poi, ancora più dettagliata, da quella di Reggio Emilia, nessuno in giro si preoccupa di leggere cosa c’è scritto in quei fogli. Ci avrebbero trovato la storia di legami con personaggi mafiosi e di ricorso alla prestazione di mano d’opera illegale e a basso costo ben precedenti al terremoto.

Sulle regole e sui costumi della ‘ndrangheta Mescolini aggiunge una riflessione a quelle della collega Ronchi riguardante la “bacinella”. Sarebbe, stando a molte arringhe difensive, una sorta di cassa comune obbligatoria della cosca (mai emersa invece in Emilia) dalla quale attingere e nella quale versare denaro prima e dopo le operazioni della consorteria. Ma siamo nel terzo millennio e nessun mafioso si sognerebbe secondo il pm di aprire un conto corrente in banca con la funzione di cassa comune. Né le tante operazioni di polizia in questi anni hanno mai scoperto cassaforti nascoste delle ‘ndrine. Gli interessi comuni oggi la ‘ndrangheta li gestisce ad altri livelli, mettendo in campo alla bisogna le risorse economiche e personali dei singoli affiliati secondo una logica di comunità che rappresenta il collante della famiglia mafiosa. E chi sgarra, cercando di fregare gli altri, paga, come l’ex capo Romolo Villirillo che si è tenuto per sé soldi destinati a Nicolino Grande Aracri.

Tra una settimana toccherà parlare alle parti civili, poi tre sedute per le contro repliche delle difese (18 e 20 settembre, 9 ottobre). Infine le dichiarazioni spontanee dei collaboratori di giustizia e degli imputati previste per l’11 ottobre. A quel punto il collegio composto dai giudici Francesco Maria Caruso, Cristina Beretti e Andrea Rat si ritirerà in Camera di Consiglio a due anni e mezzo dall’inizio del processo, uno dei più imponenti, per scrivere una sentenza che farà storia. Comunque vada.

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