Mentre gli scienziati continuano senza sosta la caccia alle origini della malattia 47 milioni di persone in tutto il mondo, la ricerca riesce a far un altro passo avanti nella diagnosi. Una luce che illumina l’occhio, un semplice esame non invasivo potrebbe permettere di cogliere nella retina una ‘spia’ della presenza di Alzheimer, quando ancora i sintomi clinici della malattia non sono comparsi. Un nuovo studio della Washington University School of Medicine a St. Louis, che ha coinvolto 30 pazienti, ne mostra le potenzialità. Usando una tecnologia simile a quella che si trova in molti studi oculistici, i ricercatori Usa sono riusciti a rilevare segnali che suggerivano l’Alzheimer in anziani asintomatici sottoposti alla tecnica. Il lavoro, come riporta l’Adnkronos, è pubblicato sulla rivista Jama Ophthalmology.

“Questa tecnica – spiega il primo autore dello studio, Bliss Elisabeth O’Bryhim – potrebbe diventare uno strumento di screening che aiuta a stabilire chi dovrebbe sottoporsi a esami più costosi e invasivi per diagnosticare la malattia prima della comparsa” dei primi segni clinici. “La nostra speranza è di usarla per individuare chi sta accumulando proteine anomale nel cervello che potrebbero portare a sviluppare l’Alzheimer”. Il danno cerebrale provocato dalla malattia che ruba i ricordi può infatti cominciare diversi anni prima che compaiano sintomi come la perdita di memoria e il declino cognitivo. Alcuni scienziati stimano che le placche correlate alla patologia possano accumularsi nel cervello due decenni prima dell’inizio dei sintomi. Per questo è scattata la ricerca di un modo per intercettare segnali di questo processo in corso in modo da anticipare il più possibile la diagnosi. Poiché da studi precedenti su persone morte di Alzheimer è emerso che i loro occhi mostravano segni di assottigliamento nel centro della retina e degradazione del nervo ottico, gli esperti si sono concentrati proprio su questa pista.

Nel nuovo studio, i ricercatori hanno usato una tecnica non invasiva, chiamata tomografia a coerenza ottica-angiografia, per esaminare le retine negli occhi dei 30 partecipanti allo studio, età media sopra i 70 anni, nessuno con sintomi clinici di Alzheimer. Si tratta di pazienti coinvolti nel ‘Memory and Aging Project’, metà dei quali da scansione Pet o esame del liquido cerebrospinale risultavano avere elevati livelli di proteina amiloide o tau. Proprio in questi ultimi “abbiamo rilevato un assottigliamento significativo nel centro della retina”, ha spiegato uno dei ricercatori principali dello studio, Rajendra S. Apte. “Tutti noi abbiamo una piccola area priva di vasi sanguigni al centro delle nostre retine che è responsabile della nostra visione più precisa. Abbiamo scoperto che questa zona era significativamente allargata nelle persone con malattia di Alzheimer in fase preclinica”.

Al test più comune spesso disponibile negli studi degli oftalmologi, gli scienziati hanno aggiunto un elemento: l’angiografia, che consente ai medici di distinguere i globuli rossi da altri tessuti nella retina migliorando l’analisi. “La retina e il sistema nervoso centrale sono così interconnessi che i cambiamenti nel cervello potrebbero riflettersi nelle cellule della retina”, osserva Apte. Gli esperti precisano che sono necessari ulteriori studi su altri pazienti per replicare i risultati ma se venisse confermato che le modifiche rilevate con questo test oculare possono essere utilizzate come marker per il rischio di Alzheimer, potrebbe essere possibile un giorno esaminare persone giovani di 40-50 anni, valutare se sono instradate verso la malattia e iniziare i trattamenti prima, per ritardare ulteriori danni.

Lo studio su Jama

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