Il mondo è andato in brodo di giuggiole per la foto di una poliziotta argentina immortalata (a sua insaputa) mentre allattava il bambino di una donna appena arrestata. Nell’epoca dei fatti quotidiani che diventano “notizie” da propinare ai lettori, c’è sempre più la sensazione che la gente vada nutrita a santi ed eroi, rei e nemici. In questo contesto divulgativo la comunicazione diventa sensazionalista, bianca o nera: da una parte il male assoluto, ritratto spesso su barconi stracolmi o con sorrisi dai denti d’oro, dall’altra il sublime, come la madonna moderna nell’atto di sfamare un affamato. Ad alimentare la tifoseria propagandistica ci pensa il bombardamento continuo di frasi a effetto, che diventano via via convinzione radicata, riducendo gli interlocutori a ragionare unicamente per slogan.

Quando è collassato il ponte Morandi a Genova molte testate hanno approfittato di piccoli sotterfugi per accaparrarsi più click possibili, utilizzando la tragedia non tanto per riportare la nuda verità degli eventi, piuttosto per trascinare il lettore verso una macabra spirale voyeuristica. Le indagini sulle cause e i principali attori coinvolti nel disastro erano alla stregua dei video dei testimoni, interviste coi sopravvissuti e la sequela di immagini “che potrebbero urtare la sensibilità”. Il pellegrinaggio virtuale nel mondo grondante dolore (degli altri) è irresistibile anche per i quotidiani più autorevoli.

Nonostante gli eventi più nefasti esercitino un’attrazione maggiore, c’è spazio anche per il clamore sdolcinato, piccole storielle da fotoromanzo per il pubblico col Kleenex in tasca. Clip di cani in attesa di padroni che non torneranno più, o anziani che guardano il mare di fianco a foto di mogli morte da poco diventano virali più dell’ultimo libro di Fabio Volo. Non importa quale sia il taglio da dare, se strappalacrime o pruriginoso, incitante odio o paura, un’immagine o un breve video funzionano più di una storia scritta bene. Le parole vanno pescate, incollate insieme per poi essere lette una ad una, comprese e digerite; una foto è un fulmine che si incolla alla mente.

La “storia” della foto ci impressiona, tocca le pulsioni ma non arriva al cuore di un ragionamento, non resta. E va ad accatastarsi alle altre migliaia di foto senza coscienza che ogni giorno guardiamo e dimentichiamo. Ai produttori di informazione non importa il pensiero critico ma la visualizzazione fine a se stessa. La notizia data tramite il codice visivo è di per sé un assolutismo, poiché quel canale è immensamente più persuasivo di quello scritto o orale. E può vendere più agevolmente concetti privi di significato, il nulla preso come tutto.

Si può trasformare un gesto di compassione umana e spontaneo in un evento straordinario, unico e privare quell’istinto naturale di ogni sua magia, rendendolo merce commerciale. Nella fabbrica di idoli da osannare o nemici da combattere, tutti hanno un valore e possono essere impacchettati per la causa a loro più congeniale, in affannata ricerca di spiccioli di celebrità evanescente. Se da un lato ci viene chiesto di apporre il consenso a tutela della nostra privacy su esami e pratiche pubbliche, dall’altro non siamo affatto padroni della nostra immagine. Chissà se la poliziotta, postata dal suo collega, sia stata felice di tutta questa attenzione mediatica.

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