Il sospetto è che non si sia trattato di un semplice furto ma di un avvertimento. Saranno le indagini a chiarire chi e perché è entrato in casa del sostituto procuratore della dda di Reggio Calabria, Roberto Di Palma. Le modalità con le quali l’11 agosto i ladri si sono intrufolati nel suo appartamento e la scelta di sottrarre solo pochi oggetti, lasciando perfino una somma di denaro che il magistrato teneva nel cassetto della sua scrivania, lascerebbero pensare che l’obiettivo del raid era quello di far capire al pm che se vogliono colpirlo lo possono fare in qualsiasi momento e, addirittura, fin dentro casa. Anche perché nello stesso cassetto in cui c’era il denaro era custodito un mazzo di chiavi che apre le stanze dell’ufficio di Di Palma in procura. Quelle, invece, sono state prese dai ladri.

Sulla vicenda sta indagando la procura di Catanzaro che è competente per i reati in cui sono parte offesa i magistrati reggini. L’ufficio del procuratore Nicola Gratteri ha già chiesto alla squadra mobile una dettagliata informativa che sarà consegnata al procuratore aggiunto Vincenzo Capomolla. Al momento nessuna dichiarazione da parte degli inquirenti ma è chiaro che il furto sarà analizzato in tutti i suoi aspetti. “Presto – è l’unico commento di Capomolla – ci trasmetteranno gli atti perché siamo competenti noi. È ovvio che le indagini ci saranno. La vicenda è suscettibile di qualsiasi approfondimento. Noi faremo tutti gli accertamenti”.

Il dato certo è che in un complesso residenziale dove abitano 75 famiglie, i ladri sono entrati proprio nell’appartamento del pm Di Palma: evidentemente sapevano che il sostituto e la sua famiglia d’estate si trasferiscono nella casa al mare. Il furto è avvenuto probabilmente di giorno quando i ladri hanno forzato una porta blindata e, una volta dentro, la sensazione è che abbiano voluto far percepire il loro passaggio senza provocare danni all’abitazione.

Quello che aveva tutte le caratteristiche di un raid, infatti, poteva essere più invasivo e, allo stesso tempo, più redditizio per dei semplici “topi d’appartamento” che, nonostante la casa disabitata e il tempo a disposizione per svaligiarla, hanno lasciato al loro posto oggetti di valore accontentandosi delle chiavi dell’ufficio in procura.  Un gesto più simbolico che un rischio reale. Il danno, infatti, è relativo perché è sufficiente sostituire la serratura dell’ufficio della dda, al sesto piano del Cedir, per scongiurare qualsiasi intrusione nella stanza della procura che, comunque, è  controllata ventiquattr’ore al giorno con telecamere e carabinieri. Ecco perché l’aver preso proprio quelle chiavi e non oggetti di valore dalla casa del magistrato lascia aperta l’ipotesi che si sia trattato di un messaggio che qualcuno voleva lanciare a Roberto Di Palma, uno dei pm più esperti della procura di Reggio Calabria che per molti anni ha indagato sulle cosche della Piana di Gioia Tauro e che da alcuni mesi si occupa della ‘ndrangheta di Reggio. Dai Piromalli ai Molé passando per i Pesce, i Bellocco e i Gallico, non c’è boss del mandamento tirrenico che non sia inciampato sulle indagini del sostituto Di Palma che da anni vive sotto scorta.

Tra arresti e condanne, infatti, il magistrato reggino è la bestia nera delle cosche della Piana. I boss lo odiano. Pochi mesi fa, per esempio, don Mommo Molé ha inveito durante un processo contro la dda reggina accusando Di Palma di aver messo in piedi una vera e propria persecuzione nei suoi confronti. “Vi piace vincere facile, eh – sono state le parole del boss – Sempre con noi ce l’avete, vi volete fare pubblicità sulle nostre spalle”. “Noi – è stata la risposta di Di Palma – la trattiamo per quello che è, signor Molè. Un mafioso. E trattiamo i suoi figli per quello che sono, mafiosi. Noi facciamo indagini e il nostro scopo non è certo farci pubblicità o acquisire notorietà. Se fosse vero, considerato che l’arresto ogni due mesi,  dovrei essere procuratore nazionale e invece sono un semplice pubblico ministero. Lei, invece, signor Molè, non è nessuno. Come vede, qui non ci sono giornalisti, non ci sono telecamere perché lei, signor Molè, non conta più niente”.

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