Bilian ha sei anni. È marocchino, è in viaggio con sua madre. Sulla lancia di soccorso siede insieme a lei, lo sguardo terrorizzato, i tratti del viso che hanno assunto l’aspetto di una persona molto, molto adulta. Il pilota del rhib gli porge la mano in un silenzioso “Batti cinque”. Bilian alza la sua di mano, e per un attimo fa un sorriso. Man mano, quello sguardo adulto si scioglie.

Un paio d’ore dopo salta e chiacchiera sul ponte dell’Aquarius, mentre intorno a lui si effettuano le prime pratiche di registrazione delle persone soccorse. Nella sua lingua – ma i bambini riescono a farsi comprendere – ricorda il momento in cui i soccorritori sono arrivati, il giubbotto di salvataggio, indica la lancia su cui viaggiava ora appesa sopra alla sua testa. Un po’ di quello sguardo incredibilmente invecchiato resta.

Helen ha dieci mesi. Anche lei viaggia con la mamma. Ma a cullarla a bordo, per tutto il tempo, c’è un uomo eritreo. “Ti racconto la mia storia, ma niente telecamera”. Niente telecamera. “L’Eritrea è un paese con poche persone, se mi vedono in televisione poi mi riconoscono posso avere dei problemi”, si giustifica. Con Helen ha passato un mese e mezzo in un centro di detenzione libico. Si sono conosciuti lì, erano tutti insieme. “A sua mamma non dispiace se la prendo e la tengo in braccio”, sorride. La fa giocare, poi la culla e l’addormenta. Lei sta in braccio a tutti, ma con lui di più. “Mia moglie e mia figlia vivono in Svizzera. Non le vedo da quando la mia piccola aveva un anno, sei anni fa. Andare lì? È il mio sogno”. La sua storia è quella di quasi tutti gli uomini che vengono da quel paese. “Sono nel servizio militare da 16 anni. È obbligatorio per tutta la vita: siamo schiavi, praticamente. Non ce la facevo più”, dice mentre la bimba lo guarda. “Io non sono un militare. Facciamo la guerra all’Etiopia dal 1998, ma siamo fratelli”. Ora si parla di pace. “Non ci credo. È solo politica. Dicono che si può andare da un paese all’altro. No, io non ci credo”.

(Photo/Angela Gennaro)

Di fronte, su una panchina, siedono tre ragazzi. Hanno 15, 16 e 20 anni. Il più grande è eritreo, gli altri due etiopi. Erano nella seconda barca soccorsa dall’Aquarius. Sono in fila per entrare in clinica: scherzano tra loro e un po’, in inglese, vogliono parlare. Hanno la scabbia, come quasi tutte le persone della loro nazionalità soccorse. “Eh sì è dolorosa. Hanno sempre prurito, si grattano tutto il giorno”, dice Catherine, infermiera neozelandese di Medici senza Frontiere, mentre li accompagna dentro. “Il trattamento dura tre settimane. Prima, con al massimo due giorni di navigazione tra il soccorso e lo sbarco in un porto sicuro, facevamo loro iniziare il trattamento direttamente a terra. Ora dobbiamo vedere come fare”.

Per il momento, infatti, Aquarius sta continuando a pattugliare in zona SAR libica – in acque internazionali – come ormai fa da una settimana a questa parte. In attesa dell’assegnazione di un “porto sicuro” dove sbarcare le persone già soccorse (e quelle che nel frattempo potrebbero aggiungersi: il tempo buono e il mare calmo sono “la condizione più probabile per le partenze dei barchini dalla Libia”). E non è ancora chiaro chi dovrà indicare questo porto. Non i libici, che pur essendo i “coordinatori” nella loro area search and rescue, hanno passato la mano e ordinato alla nave di rivolgersi a un altro centro di coordinamento per lo sbarco. Come l’Italia o Malta.

SOS Mediterranèe ha messo in fila – sul blog costantemente aggiornato con la posizione della nave – la successione dei contatti intercorsi con la Guardia Costiera libica e il Centro di coordinamento di Tripoli. Dopo aver richiesto e ricevuto il numero delle persone soccorse – donne, uomini e bambini – nonché età, nazionalità e “vulnerabilità” – il JRCC di Tripoli, già alle 19.29 del 10 agosto chiede all’Aquarius di contattare un altro Centro di coordinamento per l’assegnazione di un “porto sicuro” come richiede la legge. Porto che non può trovarsi nella stessa Libia: “Nessuna operazione europea e nessuna nave europea effettua sbarchi in Libia, perché non lo consideriamo un Paese sicuro”, aveva sottolineato a metà luglio la portavoce della Commissione Europea per le Migrazioni Natasha Bertaud. Lo stesso ministero degli Esteri – come è già stato fatto notare – sul sito del ministero degli Esteri viaggianesicuri.it, alla voce Libia, scrive: “Si ribadisce l’invito ai connazionali a non recarsi in Libia e, a quelli presenti, a lasciare temporaneamente il Paese in ragione della assai precaria situazione di sicurezza”.

“Si informa che la situazione a bordo dei casi SAR 656, 657 (i due soccorsi effettuati da Aquarius venerdì) è per il momento buona”, scrive Aquarius via mail al centro di coordinamento libico e con in copia i centri di coordinamento italiano, maltese e tunisino. “Come riportato nelle mie e-mail precedenti, i 141 sopravvissuti sono stati salvati all’interno della regione libica di ricerca e salvataggio. Vi ringrazio di cuore per la vostra offerta di assistenza. Secondo la Convenzione SOLAS, il regolamento 33, il JRCC di Tripoli è responsabile di questo evento SAR, ed è responsabile dello sbarco di queste persone in un luogo sicuro”, scrive Aquarius ai libici. “Pertanto, chiedo cortesemente la vostra assistenza al contatto con altre autorità marittime competenti al fine di facilitare lo sbarco dei superstiti in un luogo sicuro entro un termine ragionevole”. Aquarius rimarrà nell’area, si spiega: “Posizione attuale: linea di pattugliamento a nord di Zuara a nord di Abu Kammash, in acque internazionali, in attesa di ulteriori istruzioni da parte vostra. Continueremo a essere disponibili per la ricerca e il soccorso se necessario”.

Nessuna risposta. La mattina dopo, alle 11, Aquarius chiama il centro libico: chi risponde dice che non risulta nessuna mail, che viene quindi rimandata. Niente. Alle due e un quarto la nave delle ong richiama i libici: ancora niente posta elettronica. La mail viene rimandata, insieme alla richiesta telefonica di essere contattati dal “duty officer”. Da qui comincia una serie di tentativi di comunicazioni tra Aquarius e i libici, tra email e numeri di telefono a Tripoli (forniti su GISIS, il database su cui devono essere inseriti i dati delle SAR zone) che suonano a vuoto o dove rispondono persone che chiedono di richiamare o di essere richiamati perché “in attesa di istruzioni”. “Come autorità di coordinamento”, risponde infine via mail il Centro di coordinamento di Ricerca e Soccorso di Tripoli ad Aquarius, “vi do gli ordini per il ‘place of safety’: ora dovete contattare un altro MRCC e chiedere il posto di sicurezza”. Aquarius risponde mettendo in copia i centri di Roma e di Malta. “Ricevuto. Contatteremo un altro centro per cercare un porto”.

Alcune ragazze si avvicinano. “Dove andiamo? Quando arriviamo? Domani? Dove?”. Non si sa ancora. “In Europa?”. Il volto si fa scuro? “In Libia?”. No, in Libia no. Ma quando e in quale porto la nave Aquarius tornerà e sbarcherà le 141 persone soccorse in due differenti operazioni il 10 agosto è ancora tutto da capire.

Nel comunicato odierno Sos Mediterranee e Msf mettono in luce un altro aspetto del nuovo corso dei salvataggi in mare. “Le persone salvate a bordo hanno dichiarato ai nostri team di aver incrociato cinque diverse navi che non hanno offerto loro alcuna assistenza, prima di essere soccorse dall’Aquarius”, si legge nella nota. “Le navi potrebbero non essere disposte a rispondere a coloro che sono in difficoltà a causa dell’alto rischio di rimanere bloccate e di vedersi negare un luogo sicuro di sbarco – ha dichiarato Aloys Vimard, coordinatore di Msf – le politiche che mirano a impedire a tutti i costi alle persone di raggiungere l’Europa si traducono in maggiori sofferenze e anche in viaggi più rischiosi per persone che sono già molto vulnerabili “.

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