“Ah! La Sicilia! Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani”. Così Indro Montanelli in un’intervista a Le Figaro nel febbraio del 1960.

Qualche anno prima, nel 1943, il generale Mario Roatta alla vigilia dello sbarco angloamericano in Sicilia faceva affiggere sui muri dell’isola un manifesto appello ai siciliani in cui si diceva sicuro che “i siciliani insieme agli italiani” avrebbero respinto l’invasione nemica. La cosa suscitò scandalo e il generale fu costretto alle dimissioni. Per Montanelli fu diverso: ci fu naturalmente una sfuriata di indignazione che però cadeva in un clima nazionale in cui la Sicilia, la sua cultura e le sue tradizioni venivano sistematicamente irrise e derise dal cinema, dal teatro, dai rotocalchi e dalla televisione al punto che per molti giovani siciliani sembrò che la modernità coincidesse con la negazione dei depositi estetico-comportamentali della tradizione. “Copriti Carmela!”, la coppola e i fichi d’India contornavano il mood della regione almeno nello sguardo e nei giudizi di chi siciliano non era, ma che finiva col sollecitare nei giovani siciliani la necessità di un distacco, di una distanza da quei modelli per un riscatto e un’accoglienza nazionale.

Vi fu in un ventennio un processo di rapidissima trasformazione dei comportamenti. Non una mutazione antropologica ma una riverniciatura, tanto appariscente quanto superficiale. Oggi quella modernizzazione mostra gli evidenti suoi limiti. Ed è cambiato il paradigma di narrazione della Sicilia. Oggi prevale il fascino delle cose autentiche. “Montalbano sono”, il mondo letterario di Andrea Camilleri e soprattutto la sua traduzione filmica hanno aiutato un processo di recupero non della tradizione ma della specificità siciliana che non indugia al di qua della modernità ma va oltre, superandola, mostrandone i limiti e indicando una possibile via d’uscita senza i contorcimenti nella postmodernità.

Discorsi astratti? Non c’è dubbio. Cerchiamo allora di recuperare.

Lorenzo Reina è un pastore scultore che vive in uno sperduto Paese dell’entroterra agrigentino. Un suo teatro all’aperto, costruito con le pietre recuperate e rimodellate da lui stesso, ha avuto un incredibile riconoscimento nell’ultima Biennale di architettura di Venezia. Come esempio di riqualificazione. Andrea Bartoli e Florinda Saieva hanno fatto di un quartiere diruto di Favara uno dei centri espositivi di arte moderna più rinomati del mondo riuscendo a incastonare il tutto nel tessuto sociale e popolare del paese vivificandolo. Oggi Farm cultural park è indicato ovunque nel mondo come esempio riuscito di rigenerazione urbana. Maurizio Spinello, di Santa Rita – una frazione di Delia in provincia di Caltanissetta – ha speso tutta la sua giovane vita nel recupero di antichi grani autoctoni lavorati secondo il modello produttivo domestico e ha impiantato un forno dove si produce il migliore pane della Sicilia.

Cos’è passato o futuro quello che Lorenzo, Andrea e Florinda e Maurizio stanno vivendo? La risposta la stanno dando i non siciliani che vanno a visitarli sbalorditi e ammirati sicuri che le loro esperienze interrogano il senso della loro vita, il loro modo di relazionarsi, la ricerca della possibile felicità.

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