Venticinque anni non sono pochi per qualsiasi relazione, figuriamoci per dei musicisti che sono spesso costretti a convivere spalla a spalla in quella giostra perenne che è la vita, impegnati in un estenuante neverending tour che li porta su e giù da un palco quasi ogni sera. “Ma era ciò che sognavamo di fare – racconta Erriquez, pseudonimo di Enrico Greppi, cantante e fondatore della Bandabardò che ha da poco festeggiato i cinque lustri di attività -, il nostro desiderio era quello di costruire una fortezza viaggiante musicante e sorridente, perché crediamo molto nel sorriso come arma per affrontare la vita. Abbiamo scelto uno stile di vita più che la musica per farci applaudire, per provare corresponsione al nostro ego che per fortuna è abbastanza piccolino: noi siamo più da squadra, da gruppo, da famigliola. Il tempo passa ma la voglia rimane, anche se io parlo sempre meno di certe tematiche”.

In effetti, eravate una band politicizzata.
Ma siamo da sempre contro gli applausi facili. Fino a qualche anno fa bastava dire “Berlusconi” o “marijuana” per avere una standing ovation. Parlare di certe cose, ai concerti, non rientra nel nostro lavoro: soprattutto siamo convinti di trovarci di fronte a persone che hanno una loro intelligenza. Un loro credo politico. Una loro ideologia.

Avete messo su la ditta nel ’93, sembra passato un secolo.
La Bandabardò è la dimostrazione vivente che è possibile percorrere una strada alternativa ottenendo grandissimi risultati. E poi, scrivere canzoni ha dato da mangiare a noi e ai nostri figlioli, e ci permette anche di mantenerli all’università.

Per festeggiare degnamente avete organizzato il Club Tour, che prosegue il 1 agosto alla Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma e si concluderà il 7 dicembre al Nelson Mandela Forum di Firenze.
È una scaletta che racconta questi 25 anni di dischi, concerti e tour e che ci riempie di gioia: partiamo da canzoni del ’93 e arriviamo a oggi. Sono quasi due ore di racconti e di ricordi.

Quanta voglia e allegria vi rimangono ancora in corpo?
Voglia e allegria sono intatte, anche perché veniamo confortati quasi ogni sera da persone che ci accolgono dicendoci “bentornati a casa”. In giro c’è tanta voglia di partecipare e di trascorrere una serata insieme.

Di solito si incomincia emulando una band o imitando altri artisti. Voi a chi vi siete ispirati?
Premetto che siamo partiti senza meta, non ci siamo messi insieme dicendo “dobbiamo andare a suonare lì o in un altro posto” o fare determinate cose. Siamo partiti con una macchina, dapprima un po’ in  rodaggio, poi col tempo è andata. Chiaramente essendo tutti di una certa epoca, siamo tutti affascinati dai grandi gruppi degli anni 70, che erano una sorta di grandi famiglie, che insieme hanno vissuto 30 o 40 anni di carriera.

Qualche nome?
Alcuni ci sono ancora… come ad esempio gli Stones. Ci vergogniamo anche un po’ a fare certi nome perché poi sembra che abbiamo preso da loro. In realtà, a noi, è la storia del rock mondiale che ci ha affascinato, quel modo di vivere che anticamente era molto dispendioso fisicamente, perché il “sesso droga e rock and roll” era faticoso. Noi, però, siamo arrivati quando finiva tutta quella bellezza e iniziava il lavoro del musicista, molto serio e che di conseguenza ha bisogno di moltissima energia.

Mick Jagger una volta disse che decise di entrare in una band perché gli avrebbe permesso di  avere tante ragazze.
Eheheheh. Non è questo che ci ha spinto ma il fatto di poter dire “cavoli sto facendo il musicista, sto vivendo del frutto della mia immaginazione, del mio gusto insieme a un gruppo di persone affiatato e che ormai sono come dei fratelli”. Perché la cosa che ci contraddistingue è  essere sempre gli stessi dal ’93 a oggi. Di gruppi 25enni ce ne sono, ma alcuni hanno sostituito il cantante, altri il manager o i musicisti. Noi non abbiamo cambiato mai nemmeno il più umile dei lavoratori di palco: chi entra nella banda rimane incollato.

Il bilancio di questi 25 anni è più che positivo.
Siamo oltre la soddisfazione. Oggi ai nostri concerti vengono bambini insieme ai nonni, è una cosa meravigliosa. Se pensiamo a queste cose ci viene il gozzo, come si dice a Firenze, ci si incrina la voce. Abbiamo visto figli e genitori ritrovare un punto di intesa, il figlio guardare il padre tutto sudato che ha pogato come a dire “ma guarda un po’ sei anche tu una persona figa con la quale posso interagire”!

Rispolverando i vostri dischi, c’è qualcosa che avreste fatto diversamente?
Tantissime canzoni, fatte per fretta e venute come non dovevano venire ma che dal vivo hanno trovato una loro collocazione, un loro modo di essere. Credo che il parere di chi ci ascolta sia importantissimo: ad esempio un pezzo come Manifesto che è diventato n nostro cavallo di battaglia, abbiamo capito solo facendolo dal vivo che era pieno di energia, di danza. Quando l’ho scritta pensavo fosse molto leggera, timida, introversa, una canzone da album. Invece si è rivelato un pezzo roboante, forte. E questo lo abbiamo capito grazie al pubblico romano. Ci dicevano: “Aoh ma Manifesto non la fate mai?”, e noi rispondevamo “Ma guardate che è un pezzo lento” e ci ribattevano “ma che lento, dajeee, pigia!”. Noi siamo sensibili a questi consigli amorosi, e da lì è diventato un pezzo che rovescia il palco!

In occasione di questo importante anniversario avete rilanciato il brano Beppeanna rinominato Se mi rilasso collasso, col featuring di Silvestri, Gazzè, Consoli e Bollani. Guardando ai numeri  che avete generato – alla audience – però, sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli che fanno oggi artisti dediti al genere che va per la maggiore, la Trap.
Per me Trap sarà sempre e solo Giovanni Trapattoni, un grande allenatore. La musica prima era un grande business, ora si è molto ridimensionato, le case discografiche e le radio puntano su cose vendibili, creano un mercato usa e getta, chissà la trap quanto durerà? La Bandabardò avendo commesso l’errore imperdonabile di aver frequentato feste di partito, aver suonato nei centri sociali, rimarrà per sempre un gruppo politicizzato, brutto, sporco e cattivo, che fa ballare anche quando non si deve e per cui ci puoi mettere anche Pavarotti con noi, ma sempre quello sarà. Pronunciare la parola Bandabardò in radio stona con quello che c’è prima o dopo: ancora oggi ci chiamano speaker radiofonici per dirci “ieri sono riuscito a inserirvi in scaletta” come se fosse segno di gran coraggio. Un atto quasi rivoluzionario.

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