Dopo anni di battaglie, adesso è ufficiale: a Piombino tornerà a colare l’acciaio. E i 2000 lavoratori dell’ex acciaieria Lucchini, ribattezzata Aferpi, saranno tutti gradualmente reintegrati con un piano industriale che prevede il rilancio del secondo polo siderurgico italiano dopo l’Ilva di Taranto. Martedì pomeriggio al ministero dello Sviluppo economico è avvenuto il passaggio definitivo di Aferpi al gruppo indiano Jsw Steel West che ha rilevato l’azienda ormai al collasso dall’algerino Issad Rebrab dopo 3 anni di promesse non mantenute nonostante gli annunci in pompa magna dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi che aveva fortemente sponsorizzato l’operazione del gruppo algerino Cevital definendola “un’operazione strategica per il futuro dell’Italia”. Insieme al passaggio di proprietà su cui i contraenti avevano raggiunto un accordo lo scorso maggio sotto la supervisione dell’ex ministro Carlo Calenda, martedì è stato firmato anche il nuovo accordo di programma che prevede il rilancio dell’acciaieria nei prossimi anni.

L’accordo di acquisto è stato trovato su una cifra intorno ai 75 milioni ed è stato firmato davanti al notaio Mario Miccoli e al sottosegretario allo Sviluppo della Lega Dario Galli, ma il grosso delle trattative degli ultimi giorni hanno riguardato l’accordo di programma in cui il gruppo indiano prevede di rimettere in moto in prima possibile i laminatoi e partecipare alla gara di Rete Ferroviaria Italiana sulla produzione di rotaie. L’investimento di Jindal su Piombino è di un miliardo e 50 milioni, di cui il 10% coperti da fondi pubblici: 33 milioni arriveranno dal Ministero per la tutela e il risanamento ambientale mentre 60 saranno messi in campo dalla Regione Toscana divisi equamente, 30 e 30, tra progetti di efficienza energetica del ciclo produttivo e quelli relativi alla ricerca e alla formazione. Il piano industriale, che terminerà nel 2025, si articolerà in due fasi: la prima, che si concluderà nel 2020 con la ripartenza dei laminatoi e lo smantellamento dei vecchi impianti; la seconda, con la realizzazione di due nuovi forni elettrici per raggiungere la quota di tre milioni di tonnellate di acciaio all’anno. L’accordo di programma, inoltre, prevede che dal 2019 partiranno i lavori per lo smantellamento dei vecchi impianti che saranno tutti trasferiti fuori dal centro cittadino con annesse le necessarie bonifiche ambientali.

Sul fronte del lavoro, invece, l’accordo di programma prevede la riassunzione totale di tutti i 2000 addetti che hanno perso il lavoro. Questo avverrà gradualmente con la ripartenza degli impianti: a settembre, quando verranno riaccesi i laminatoi, torneranno a lavoro i primi 435 operai che diventeranno 635 nel 2019 con l’inizio dei lavori per smantellare i vecchi impianti. Infine, quando l’acciaieria tornerà a produrre acciaio in maniera definitiva saranno reintegrati tutti i 1.500 operai della ex Lucchini con gli adeguati ammortizzatori sociali, mentre i restanti 500 andranno in pensione nei prossimi anni. “Dopo un periodo così lungo di difficoltà e una fabbrica paralizzata dal vecchio imprenditore, oggi per noi è come il primo giorno di scuola – esulta al fattoquotidiano.it il segretario provinciale della Fiom di Piombino David Romagnani – ripartiamo con l’entusiasmo e con l’ottimismo di tornare a vedere persone che lavorano nella fabbrica. C’è tanta voglia di ripartire e il vero lavoro inizia oggi: appena possibile ci siederemo al tavolo con l’azienda per capire i loro tempi”.

L’accordo raggiunto martedì è stato accolto con grande soddisfazione anche dal Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi: “È stato un successo – ha commentato a caldo il governatore – avevo preso l’impegno che a Piombino o si sarebbe tornati a colare acciaio o mi sarei dimesso. Sono contento di quest’accordo per i lavoratori e per la Toscana e vigileremo perché si attui compiutamente”. Era stato proprio Rossi a scontrarsi nel novembre scorso con l’allora segretario del Partito Democratico Renzi che, accogliendo i lavoratori dell’acciaieria sul treno dem in giro per l’Italia durante la campagna elettorale, aveva ammesso di “aver fatto una cazzata” a fidarsi di Rebrab scaricando però le colpe proprio sul governatore della Toscana e sul segretario della Fiom Maurizio Landini che nel 2014 “vollero l’operazione con gli algerini”. A stretto giro era arrivata la querela di Rossi: “Il progetto industriale presentato da Rebrab è stato scelto attraverso una regolare procedura di gara del ministero dello Sviluppo economico su cui non ho avuto alcuna influenza – aveva replicato il governatore – su questa materia non si scherza e non sono ammessi equivoci”.

L’annosa questione dell’ex acciaieria Lucchini è, insieme all’Ilva di Taranto, il simbolo della crisi della produzione siderurgica italiana: una fabbrica che nei decenni scorsi ha dato lavoro ad un’intera città e che, negli ultimi anni, è stata portata al collasso nonostante le garanzie messe sul piatto dall’algerino Issad Rebrab, produttore di succhi di frutta e commerciante di lavatrici e automobili. E quella di martedì, per l’imprenditore indiano Saijan Jindal, può considerarsi come una rivincita: a lui proprio nel dicembre 2014 era stato preferito Rebrab e l’estate scorsa si era visto chiudere l’ennesima porta in faccia dal governo italiano sull’Ilva, poi acquisita da Am Investco Italy di Arcelor Mittal e dal gruppo Marcegaglia. Martedì ha firmato l’accordo per rilanciare l’ex acciaieria Lucchini. E con essa un’intera città.

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