Roberto Saviano è uno scrittore, un personaggio, capace di catalizzare amori al limite dell’idolatria e odi viscerali. Su Il Fatto Quotidiano si è lungamente confrontato con Marco Travaglio. Le idee si sono contrapposte in modo civile (e di questi tempi è davvero una rarità) e alla fine ognuno ha confermato giudizi e critiche su governo, Cinquestelle, Salvini e su come affrontare i nuovi scenari politici.

Su Repubblica, invece, Saviano lancia un appello a tutti coloro che hanno “visibilità”. Riassumo:

(..) Oggi le persone pubbliche, tutte le persone pubbliche, chiunque abbia la possibilità di parlare a una comunità deve sentire il dovere di prendere posizione. Non abbiamo scelta. Oggi tacere significa dire: quello che sta accadendo mi sta bene. Ogni parola ha una conseguenza, certo, ma anche il silenzio ha conseguenze, diceva Sartre. E il silenzio, oggi, è un lusso che non possiamo permetterci. Il silenzio, oggi, è insopportabile…Spesso si tace perché si sa che prendere posizione comporta dividere non solo il pubblico che ti segue sui social, ma anche e soprattutto chi dovrebbe comprare i tuoi libri, comprare i biglietti dei tuoi spettacoli, venirti a vedere al cinema o non cambiare canale quando ti vede in televisione. Ma davvero credete che quello che sta succedendo sia accettabile? Per quanto tempo credete di poter sopportare ancora senza esprimere il vostro dissenso (…)

E’ un appello, che contiene una critica ferocissima agli “indifferenti”. Una vasta platea di piccoli e timorosi opportunisti che aspettano che l’onda passi. E nel frattempo guardano con attenzione ai nuovi assetti nella Rai, dentro le case editrici, ai vertici delle istituzioni culturali e dello spettacolo italiano. La “ferrea legge delle oligarchie” incombe ed è meglio non schierarsi troppo. Ma c’è un di più. Tanti giornalisti, scrittori, registi e attori (Saviano lo dice tra le righe) considerano lettori e pubblico come “clienti”, acquirenti passivi di libri e ticket per gli spettacoli, non lettori o pubblico, o spettatori. Il cliente, che per definizione ha sempre ragione, va coccolato, mai deluso, le sue certezze accarezzate. Il lettore no, va meravigliato, stupito, deve sapere sempre da che parte stai e come la pensi. Certo, se non gli piace come affronti un certo argomento che divide – vedi alla voce razzismo e immigrazione – non ti compra, non viene ai tuoi spettacoli, ti attacca sui social. Ma almeno il rapporto tra te e lui è chiaro.

Ho seguito sempre il lavoro di Roberto Saviano. Ho letto Gomorra, visto il film di Garrone e seguito la serie. Ho i miei giudizi positivi e le mie riserve su tutto. In questi anni ho anche osservato il vasto consenso che circondava lo scrittore. Ho visto la fila di scrittori e giornalisti davanti alla sua porta (virtuale) per una citazione, una prefazione, un giudizio su un’opera scritta. Per la serie quando il sole splende un raggio può toccare anche te. Una sola volta ho scritto un articolo su Saviano. Era il 23 settembre del 2006. Casal di Principe, piccolo palco e piccola folla. Saviano (accanto a lui Fausto Bertinotti) parla di camorra. Gomorra era già uscito ma non era ancora un successo mondiale. Roberto non aveva ancora la scorta che Salvini gli vuole togliere. In piazza, seduti sul ciglio di un circolo, i parenti dei boss ancora latitanti.

“Iovine, Schiavone, voi non valete nulla, ve ne dovete andare da questa terra”. Queste le parole dello scrittore sbattute in faccia alla camorra padrona della vita e della morte in quell’area. A pochi metri, Renato Natale, il sindaco comunista amico di don Lorenzo Diana, fatto dimettere dalla malapolitica e minacciato di morte dai boss. Aveva le lacrime agli occhi. Giudicai quelle parole straordinarie e dirompenti. Giudicai quel “ragazzo” coraggioso il vero erede morale di un altro giovane conosciuto vent’anni prima, si chiamava Mimmo Beneventano, era medico, poeta e comunista, si oppose alle speculazioni sul suo territorio, Ottaviano, e la camorra lo uccise.

Lo stesso coraggio, la stessa dirompenza, ho trovato in quel video che Saviano ha dedicato a Salvini.

Ministro della nostra sicurezza e della pacifica convivenza dell’Italia, che soffia sul fuoco delle paure e dei rancori, ministro dell’odio e della divisione. Un personaggio che miete like, che ha consenso, forse più di quanto ne riscuota oggi Saviano. Ci vuole davvero coraggio a chiamarlo “buffone” e “ministro della Mala Vita”. Perderai lettori, ti massacreranno sui social, parleranno della tua bella vita all’estero, del tuo attico americano, di barche a vela, ti bolleranno come radical chic e buonista, confezioneranno fake news. Eppure sarebbe bastato poco a Saviano per non correre tutti questi rischi. Bastava continuare a scrivere di mafie e camorre, semmai di confezionare un tomo sulla “mafia degli scafisti” in Libia (ma senza toccare gli interessi delle grandi compagnie petrolifere, comprese quelle italiane). Insomma, bastava non toccare mai il “governo del cambiamento” e i suoi ministri.

Saviano, invece, si schiera e, come a Casal di Principe dodici anni fa, ci mette faccia e corpo. E ci chiede di schierarci perché anche il silenzio ha le sue conseguenze.

Il mio seguito (nel senso di persone che mi stanno a sentire) è limitato alle mie quattro figlie femmine e all’unico maschio. Mi ascoltano (qualche volta), litighiamo, spesso la pensiamo in modo diverso sui fatti della vita. Ma mi schiero. Perché contro la barbarie, gli uomini e le donne di buona volontà, i senza potere, i bianchi e i neri, gli “italiani” che non sono mai stati primi e gli eternamente “stranieri”, devono unirsi, accantonare le differenze, pensare, studiare, leggere, contrastare le volgarità con ogni mezzo. Lottare. In tutte le “piazze”, quelle virtuali e (soprattutto) quelle reali.

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