Era entrato al Lingotto nel maggio 2003, quattordici anni fa. Sergio Marchionne si presentò da indipendente nel consiglio d’amministrazione di un casa auto sull’orlo della bancarotta. Il manager arriva dalla ginevrina Sgs, società nell’orbita della famiglia Agnelli, risanata in soli due anni. Nel giugno 2004 diventa amministratore delegato Fiat al posto di Giuseppe Morchio. E vince la prima sfida: con gli 1,55 miliardi di euro pagati da General Motors per rompere l’alleanza, inizia il rilancio dell’azienda torinese con i nuovi modelli. “Una persona molto speciale”, lo ha definito l’ex presidente di Ifil, Gianluigi Gabetti, ricordando Umberto Agnelli, che gli aveva indicato per Fiat il manager allora cinquantenne.

Di certo Marchionne non è una figura usuale. Ironico, forte e diretto, il suo dress-code non passa inosservato. In ciascuna delle sue case negli Stati Uniti, in Svizzera e a Torino ha oltre 30 maglioncini blu tutti uguali, che indossa in ogni occasione al posto della giacca e la cravatta. L’abito formale non l’ha mai amato. Le foto del manager in giacca e cravatta si contano sulle punta delle dita. Nessun dress code rigoroso neppure per gli appuntamenti ufficiali.

Si ricordano tre eccezioni. Quando si presenta alla stampa, quando va in Senato a riferire, dove la giacca e la cravatta sono obbligatorie, e alla presentazione dell’ultimo piano industriale dello scorso primo giugno, a Balocco. In quell’occasione mette una cravatta Ermenegildo Zegna solo per celebrare il target di ‘zero debito’, uno degli obiettivi raggiunti in questi anni. “Me l’hanno regalata, erano dieci anni che non ne mettevo una”, disse abbassando la zip del maglione e citando Oscar Wilde: ‘Una cravatta ben annodata è il primo passo serio nella vita’. Nel 2012 una parentesi con la barba, al Salone di Detroit: “Una questione di praticità, per risparmiare tempo la mattina. Non la faccio da prima di Natale”, disse.

Abruzzese d’origine, nato a Chieti nel 1952, Marchionne impara la cultura del lavoro in Canada, dove si trasferisce all’età di 14 anni con il padre, carabiniere in pensione in cerca di opportunità per i figli. Da giovane Marchionne passa le serate a giocare a scopa, briscola e poker nell’associazione carabinieri. Da amministratore delegato, invece, si alza alle cinque del mattino e legge per un paio d’ore i giornali. Prima il Financial Times e il Wall Street Journal, poi quelli italiani, di cui non condivide le troppe pagine di politica. Per il manager, la lingua italiana “è troppo complessa e lenta” e se “un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei”.

Nel lavoro, molto pragmatismo e pochi giri di parole: “Chi comanda è solo. Io mi sento molte volte solo”, dice una volta Marchionne, cui non manca la forza di prendere scelte difficili e molto discusse. Spesso avversate. Appena diventato numero uno modifica le catene di comando, dimezza i livelli gerarchici da nove a cinque e introduce il ‘tu’ invece del ‘lei’, cambiando una struttura ingessata. Vuole una “flessibilità bestiale” ed evita le “linee prevedibili” per superare i concorrenti.

Dopo il blitz del 2009, porta nel 2014 Fiat a ingoiare il 100% di Chrysler, facendola diventare Fca, il settimo produttore mondiale. E da Detroit lancia un piano ambizioso di cui i frutti sono attesi alla fine di quest’anno. Una scalata, quella a Chrysler, condotta tra la crisi europea, gli attacchi politici in Italia e le diffidenze degli analisti. Marchionne tira dritto e si guadagna copertina di Time, che lo chiama lo Steve Jobs dell’auto, e il plauso del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che lo trasforma in icona della ripresa dell’auto a stelle e strisce. E ultimamente si sente dare anche del “preferito” del nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, per i suoi investimenti in Usa.

D’altra parte, Fca per il pragmatico Marchionne è sempre “governativa”: negli scorsi anni – dopo un furibondo litigio – inizia ad esaltare Matteo Renzi, poi il loro rapporto diventa una love story che si incrina col tempo, finisce e quando si eclissa la stella di Rignano, lo scarica senza pietà. E nonostante questo, dopo il rilancio delle linee di montaggio con i successi della Nuova Cinquecento e della Grande Punto, nel 2006 Marchionne riesce persino a farsi dare del “borghese buono” dal segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti. Nel 2010, invece, il manager con il maglioncino dà una scossa alle relazioni industriali. Fiat straccia il contratto nazionale ed esce da Confindustria. Sono gli anni dei durissimi scontri con la Fiom del segretario generale, Maurizio Landini, che porta il gruppo in tribunale ed è l’unico dei grandi sindacati a non firmare il nuovo contratto aziendale che sarà approvato dal referendum dei lavoratori.

Dal 2014 Marchionne diventa anche presidente di Ferrari al posto di Luca Cordero di Montezemolo e dà il via al processo di spin-off del Cavallino da Fca che si completa a inizio 2016 con la quotazione a Wall Street, dove il manager aveva portato già Fiat Chrysler a ottobre 2014. Gli analisti, al momento della quotazione, assegnavano un valore al Cavallino tra i 5 e gli 8 miliardi di euro, mentre oggi Ferrari capitalizza oltre 22 miliardi e continua a macinare utili record, a 537 milioni nel 2017. Non è un caso che l’ultima operazione straordinaria annunciata da Marchionne, che fa parte del piano 2018-2022, sia un altro scorporo, quello di Magneti Marelli, previsto entro l’inizio del 2019. Dopo la decisione presa in queste ore, non sarà lui a seguirlo in prima persona.

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