E così fu che la montagna partorì il topolino: dopo settimane di fumate nere, il governo gialloverde ha trovato la quadra sull’amministratore delegato della Cassa Depositi e Prestiti. A guidare la cassaforte dei risparmi postali sarà l’ex consulente McKinsey, Fabrizio Palermo, che attualmente ricopre già  l’incarico di direttore finanziario di Cdp dove era stato chiamato dall’ex pupillo di Giovanni Bazoli, Giovanni Gorno Tempini. L’allora amministratore delegato della Cassa aveva chiamato a sé il manager, incurante del flop della quotazione in Borsa della controllata Fincantieri di cui Palermo era all’epoca direttore finanziario (oggi siede in cda) e che, nei desiderata di Palazzo Chigi, avrebbe dovuto inaugurare la grande stagione delle privatizzazioni del governo Renzi.

Così non fu: in cassa arrivò circa la metà dei 600 milioni sperati, in buona parte provenienti dalle tasche dei piccoli risparmiatori che furono memorabilmente tosati e neanche un anno dopo hanno iniziato a circolare insistenti voci di una ricapitalizzazione. E ancora oggi Fincantieri galleggia a fatica, in attesa di matrimoni riparatori osteggiati dalle contese internazionali. Come ben sanno in Cdp, grande azionista e sostenitore di peso del gruppo navale pubblico. E datore di lavoro, oltre che di Palermo, anche di Emanuela Bono, figlia dell’ormai storico presidente di Fincantieri oggi nelle grazie di Giancarlo Giorgetti ieri del giglio magico, Giuseppe Bono, che in Cassa Depositi lavora dal 2015 come responsabile del cosiddetto business development sotto l’ad uscente, Fabio Gallia, del quale era stata assistente tecnica ai tempi della Bnl.

E le solide relazioni con la famiglia Bono – così come i trascorsi in Fincantieri – sono innegabili. Ma non hanno oscurato la fama di Palermo come di uno che gioca soprattutto per sé. Probabilmente alimentata da un carattere per così dire spigoloso, di cui si raccontano esplosive sceneggiate che non concedono scampo neanche ai “clienti”. Ma anche dal fatto che nell’ultimo anno è riuscito a infilarsi nelle partite della Cassa più lontane dal suo incarico, ma più politicamente sensibili, come quelle dell’Ilva e della banca larga. Operazioni che l’hanno senz’altro aiutato a mettersi in luce rispetto al grande sconfitto (dopo Giovanni Tria) della partita: il numero uno della Bei, Dario Scannapieco che, gradito al Tesoro, è stato bocciato da Lega e Movimento 5 Stelle perché ritenuto vicino al governatore della Bce, Mario Draghi.

Partita chiusa dunque in quella che sibillinamente il sottosegretario leghista Giorgetti ha definito “una trattativa che non è a due” riferendosi ai desiderata del Colle? Non ancora perché il Tesoro dovrà completare la lista dei consiglieri da presentare martedì all’assemblea di Cdp dove, salvo altri colpi di scena, verrà anche ufficializzata la scelta di Palermo. Le prossime ore saranno quindi decisive per definire il nuovo assetto di Cassa Depositi e prestiti, controllata all’82% dal Tesoro e al 16% dalle Fondazioni bancarie. “Stiamo selezionando i migliori”, ha ribadito in più occasioni Di Maio. Le Fondazioni, invece, hanno da tempo fatto i loro giochi puntando sull’ex numero uno di Mps, Massimo Tononi per la presidenza e i due consiglieri Matteo Melley e Alessadra Ruzzu. “Sono convinto che martedì si risolverà tutto. Noi abbiamo fatto la nostra parte”, ha ribadito il presidente della Fondazione Crt, Giovanni Quaglia. Anche perché la contropartita per l’incarico di Palermo alla Cdp, è l’arrivo di Alessandro Rivera alla direzione generale del Tesoro. Rivera è senza dubbio un tassello importante per Tria che tuttavia non avrebbe affatto voluto rinunciare a Scannapieco per Cdp, cassaforte che custodisce oltre 250 miliardi di risparmi postali con un ruolo strategico per l’economia del Paese.

Il gruppo finora guidato dal tandem di banchieri Claudio Costamagna e Fabio Gallia è infatti il principale finanziatore degli enti locali fra cui anche il Campidoglio cui la cassa ha concesso 1,7 miliardi di prestiti confluiti nella gestione straordinaria e altri 500 milioni in quella ordinaria. Denaro funzionale al potenziamento delle infrastrutture e persino alla realizzazione di edilizia popolare. Inoltre un ramo della Cassa gestisce anche un portafoglio di immobili di pregio che vengono acquistati dagli enti locali. Come dimenticare che tempo fa fu proprio Cdp a comprare dall’allora sindaco di Firenze il Teatro comunale consentendogli di mettere una pezza al bilancio annuale del l’ente? Si capisce quindi quanto sia rilevante per le forze politiche avere il dominio della Cassa che Luigi Di Maio dichiarò tempo fa di voler trasformare in una vera e propria banca pubblica a sostegno delle imprese e pure oggi punta tutto su un manager che di bancario nel suo curriculum ha davvero ben poco.

Ma il ruolo di Cdp non si esaurisce qui. La Cassa agisce anche a sostegno dell’industria italiana sia di media che di grande dimensione. Basta guardare alle operazioni messe a segno negli ultimi due anni per capirne la portata. È stata la Cdp a sborsare 650 milioni per il fondo Atlante che ha comprato i crediti inesigibili delle banche. Sempre la Cassa ha poi tolto le castagne dal fuoco all’Eni nella fase più buia della crisi Saipem con un’operazione realizzata più nell’interesse del sistema che non delle tasche dei cittadini. E, ancora più recentemente, la cassa è stata strategica per ribaltare gli equilibri del consiglio di amministrazione di Telecom Italia a favore del fondo Elliott, vicino a Finivest. Il tutto grazie al 4,2% di Telecom comprato mettendo sul piatto 800 milioni di cui buona parte già bruciati. Per non parlare del fatto che la Cassa ha affiancato l’Enel nello sviluppo della società della fibra Open Fiber e, attraverso il fondo infrastrutturale F2i, sta anche contribuendo all’offerta pubblica di acquisto di Mediaset sulla società delle torri Ei Towers.

Per non tacere del fatto che Cdp è anche al centro del dossier Ilva per acquisire il 5,6% che è in mano al gruppo Marcegaglia sempre che non venga annullata la gara. Chiamata in causa dalla politica anche per l’Alitalia, finora Cdp è rimasta estranea alla tentazione dei cieli invocando vincoli di statuto che impediscono di investire in società decotte. Ma, nulla esclude, che cambiati gli assetti, la Cassa possa anche mutare parte della strategia.

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