Pechino è impegnata in una guerra di posizione, che si preannuncia lunghissima. E che il governo cinese non può permettersi di perdere, nonostante i danni collaterali. Il nemico è lo stesso di cinque anni fa: lo smog. Il governo cinese ha approvato un nuovo piano triennale (2018-2020) per la riduzione dell’inquinamento, soprattutto atmosferico, consolidando così un percorso avviato con la presidenza di Xi Jinping a fine 2012, per migliorare la qualità dell’aria nel Paese di mezzo. Un impegno, questo, che passa anche da politiche più rigide in materia di rifiuti, con una limitazione alle importazioni dall’estero che ha effetti su tutta la zone e soprattutto in Giappone. Tokio si ritrova invasa dalla plastica: prima dello stop esportava oltre 510mila tonnellate ogni anno, nel 2018 appena 30mila tonnellate.

Il piano triennale anti-smog è stato pubblicato sul sito del Consiglio di stato, il ramo “esecutivo” dell’apparato statale cinese. Quello del governo di Pechino è un programma strutturato, che prevede uno sforzo economico, giuridico, tecnologico e amministrativo, mirato a “vincere la battaglia per i cieli blu”, un obiettivo tanto caro all’attuale leadership che vuole invertire la rotta di quarant’anni di sviluppo industriale e urbano accelerato.

Il partito comunista cinese è infatti intenzionato ad accrescere la coscienza ecologica del paese e a proporsi, soprattutto dopo gli accordi di Parigi del 2016, come leader globale nella lotta ai cambiamenti climatici. Una battaglia che si allarga a più di ottanta città. Al centro delle politiche ancora una volta Pechino, il porto di Tianjin e le regioni, altamente industrializzate, del Nordest della Cina, come Hebei e Shandong: le amministrazioni locali dovranno garantire un taglio del consumo di carbone (ancora diffuso come combustibile per riscaldare le abitazioni) del 10 per cento entro il 2020.

Le aziende di questa parte della Cina, in gran parte metallurgiche, vedranno un limite nella produzione di acciaio, alluminio e carbon-coke. Lo Hebei, in particolare, limiterà la capacità produttiva a 200 milioni di tonnellate fino al 2020 (contro le 286 milioni del 2013). Misure simili saranno adottate anche nella regione del delta dello Yangtze, un’altra zona altamente industrializzata che ruota intorno alla megalopoli di Shanghai: qui il consumo di carbone dovrà essere ridotto del 5 per cento.

Dopo aver raggiunto il picco di consumo di carbone nel 2017, la Cina cerca oggi di metterlo ai margini delle proprie politiche di approvvigionamento energetico. Nel piano anti-inquinamento del governo, sono state inserite come “osservate speciali” le due regioni di Shanxi e Shaanxi, tra le maggiori produttrici dell’ex Impero di mezzo.

I giorni di aria pulita dovranno essere l’80 per cento del totale con una riduzione dello smog nelle località dove si sono registrati i livelli più alti di inquinanti del 25 per cento rispetto al 2015. Uno studio scientifico pubblicato a fine 2017 da The Lancet ha stimato che nel 2015 quasi due milioni di cinesi sono morti per cause riconducibili all’inquinamento, il 16 per cento del totale globale e oltre quattro volte il numero di morti per Aids, tubercolosi e malaria combinate. Le autorità cinesi hanno investito circa 6,4 miliardi di dollari nel 2017 e puntano ad aumentare il budget per le politiche ambientali del 19 per cento.

Un impegno, questo, che Pechino intende perseguire anche portando avanti le sue politiche più rigide in materia di rifiuti. La decisione di porre un limite alle importazioni dall’estero (di plastica, soprattutto) inizia a portare i primi risultati. Nell’ultimo decennio, la Cina ha importato oltre 7 milioni di tonnellate di rifiuti plastici, gran parte delle quali venivano assorbite dalla rete dei “riciclatori”, aziende specializzate nel riciclo e nella rivendita. Venendo meno la materia prima, il settore sta vivendo una crisi strutturale. E gli imprenditori sono sempre più orientati a portare le proprie attività nel Sudest asiatico (Malaysia e Thailandia su tutti), dove i governi non hanno ancora adottato limitazioni simili a quelle cinesi.

Lo stop ha avuto anche effetti a livello regionale. Il Giappone, uno dei principali esportatori di plastica verso la Cina, è ora, a quanto riporta il quotidiano hongkonghese South China Morning Post, invaso dalla plastica. Prima dello stop cinese, il Giappone esportava oltre 510mila tonnellate di plastica ogni anno. Nel 2018, l’export si è fermato ad appena 30mila tonnellate.

Ora il ministero dell’ambiente nipponico starebbe stilando un piano per aumentare la quota di riciclo della plastica. Tali politiche però sembrano destinate a fallire: serve una transizione culturale, denunciano gli ambientalisti, che porti a limitare l’uso di imballaggi plastici. Accusate soprattutto le grandi aziende del settore delle bevande analcoliche a cui costa meno produrre bottiglie con plastica vergine, rispetto a materiali riciclati.

Ma come altri paesi avanzati, anche il Giappone fatica ad adottare politiche tese a ridurre l’eccesso. Un recente studio della rivista Science Advances ha stimato che, agli attuali livelli di consumo di plastica e con il proseguire dello stop cinese all’import di rifiuti, nel 2030 ci saranno 111 milioni di tonnellate di plastica non smaltibili.

Dai primi anni ’90 la Cina ha assorbito 105 milioni di tonnellate metriche di rifiuti plastici (circa il 45 per cento del totale del mondo), provenienti in gran parte da Germania, Stati Uniti e appunto Giappone.

di China Files

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