di Andrea Masala

In questi giorni, in vista del probabile imminente congresso, diversi esponenti del Partito Democratico (come Roberto Morassut sul Fatto Quotidiano del 12 luglio) si stanno dividendo sul rapporto da avere col Movimento 5 Stelle. Perché questa importante questione politico-culturale non sia solo una discussione tattica e precongressuale ma acquisti la giusta dimensione di un ragionamento di lunga durata occorre allargare il campo delle considerazioni e per farlo mi farei aiutare da Antonio Gramsci, che nei Quaderni 7 e 13 scrive:

”…in questa ricerca occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa del partito; la burocrazia o stato maggiore del partito. Quest’ultima è la forza consuetudinaria e più pericolosa: se essa si organizza come corpo a sé, solidale e indipendente, il partito finisce con l’anacronizzarsi. Avvengono così le crisi dei partiti, che, qualche volta d’un tratto, perdono la loro base sociale storica e si trovano campati in aria…” e poi  sviluppa: “a un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe…”.

Alcuni partiti diventano “anacronistici” per Gramsci perché il loro gruppo dirigente (‘la burocrazia’) si sente corpo a sé, ceto politico ”indipendente”, e non espressione e rappresentanza di determinati gruppi sociali coi loro interessi e valori. Quando questo succede, quei gruppi sociali finallora rappresentati ‘si staccano’ e si spostano verso altri partiti o nell’astensione.

E’ facile riconoscerci la parabola di molte sinistre europee e di quella italiana in particolare che ha visto una migrazione massiccia di voti verso il M5S, l’astensione e perfino, anche se in misura molto più contenuta, la Lega. Si tratta soprattutto di lavoratori subordinati del privato, disoccupati e precari, il cui esodo inizia più di venti anni fa, ai quali si stanno aggiungendo sempre di più anche pensionati, dipendenti pubblici e lavoratori ad alta qualifica formativa, cioè l’ultimo baluardo di insediamento sociale delle sinistre.

Ma sarebbe sbagliato impostare il dibattito sul “ritorno a casa” di quei voti. Non di questo si tratta, ma di capire cosa è successo nel profondo della società e dei singoli individui che la compongono. Quali modifiche materiali e immateriali, economiche e culturali, di vita e di pensiero si sono prodotte nell’ultimo trentennio e di conseguenza quali politiche siano necessarie per il prossimo, non quali parole e quale speaker possano funzionare per il prossimo congresso o le prossime elezioni. Quando si diventa “anacronistici” la cosmesi non basta. Quando “i gruppi sociali si staccano” il restyling non serve. Quando si è percepiti come “campati in aria” la comunicazione, anche la migliore, è inutile.

E cercare affannosamente dentro quel “corpo a sé consuetudinario” il leader che comunica bene è continuare ad essere “corpo a sé”.

Se non si ripoliticizzano le fratture della società dando loro delle prospettive di sviluppo dentro un nuovo patto sociale, queste fratture diventeranno le barricate simbolico-elettorali tra l’alto e il basso, tra il centro e la periferia, tra élite e popolo; barricate retoriche dove i conflitti non saranno dal basso contro l’alto ma dal basso contro il più basso, tra le periferie e non contro i centri. Conflitti innescati dall’alto ma guerreggiati nel basso.

Questa riconnessione con la società profonda è il primo passaggio necessario per capire l’urgenza primaria di ricucire, di reintegrare una società disgregata da decenni di precarietà, di svalutazione del salario e di ipersvalutazione del suo potere d’acquisto, di attacco alla piccola proprietà e al piccolo risparmio, di disinvestimento culturale e formativo sulle comunità più decentrate, di sconnessione dei legami sociali. Non esiste una buona politica dentro una società malata, per avere buone politiche occorre curare la società, prendersi cura di lei e di ogni singolo soggetto che la compone.

Come iniziare a prendersi cura di questa società? Con questa domanda possiamo venire all’oggi e al dibattito di cui si diceva all’inizio. Il “Decreto dignità” presentato in questi giorni contiene alcune norme minimamente positive e un segnale potenzialmente molto importante: sulle politiche del lavoro si inverte la direzione degli ultimi 30 anni; se finora si è progressivamente impoverito, precarizzato, spogliato di diritti il lavoro, con questo decreto si prova, molto timidamente come detto, a riconsiderarlo non una merce come le altre ma un soggetto di diritto.

Ecco, prendersi cura della società significa votare questo decreto: provare a migliorarlo (magari di molto) in Parlamento, ma comunque votarlo. Non per tattica parlamentare di palazzo, non per gioco politicista, ma proprio come inizio di una ricucitura della società, come un ponte gettato verso quei “gruppi sociali che si sono staccati dai loro partiti tradizionali”. Non torneranno con questo solo segnale, ma sarebbe l’inizio di un cammino diverso, un primo rammendo di una società sdrucita, la prima riga di un nuovo patto sociale da riscrivere.

I segnali al contrario non mancano: chi più chi meno timidamente Fico, Trenta, Di Maio e altri esponenti del M5S sempre più danno segnali di insofferenza verso il superomismo twittarolo di Salvini. E probabilmente una sponda in Parlamento, nell’informazione e nella società anche su questo sarebbe utile.

Le politiche di Salvini, comunicative ma operanti, vanno nella direzione opposta al Decreto dignità: se questo aggiunge diritti, quelle li levano, li negano. Discernere questo doppio movimento nel governo è fare politica. Nella società. Per la società.

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