Xylella è una bufala? No. Xylella esiste? Sì. Xylella fa seccare gli ulivi pugliesi? È, al momento, altamente probabile. C’è certezza? Si sta lavorando per dimostrarla in modo inoppugnabile, ma, sempre al momento, non c’è. C’è il dubbio, che dovrebbe essere “l’inizio della sapienza”, ma che in questa storia viene ridicolizzato a spartiacque tra fazioni. Con un solo risultato, dall’una e dall’altra parte: ridurre a poco la grande complessità del tema, semplificarlo in “Xylella sì-no”. E a questo risultato comune si arriva percorrendo le strade opposte: ignorare il dubbio da un lato, esasperarlo dall’altro.

Questo accade in Puglia. E il post delle polemiche sul blog di Beppe Grillo, quello per cui Xylella “è una gigantesca bufala, fabbricata ad arte dalla destra e dalla sinistra, con il prezioso sostegno delle associazioni di categoria, da scienziati disponibili e multinazionali dell’agricoltura”, non fa altro che portare alle estreme conseguenze il ragionamento che parte da un nocciolo di verità: c’è Xylella, ma persiste anche il dubbio sulla causa della fitopatia. Che poi quel dubbio ci sia è anche qualcosa di fisiologico: la malattia, con le sue particolari declinazioni viste in Puglia, è stata scoperta solo cinque anni fa. La scienza ha i suoi tempi, elementare.

Il problema, però, è che è una parte della stessa scienza ad alimentare stavolta non il dubbio ma il dogma: in sostanza, Xylella è la causa del disseccamento degli ulivi e non si discute. Lo aveva detto nel 2016 anche l’Accademia dei Lincei: “Una conclusione che abbiamo accettato come non più discutibile”. Amen. Ma la scienza dogma non può essere, men che meno quando le affermazioni non hanno superato lo scoglio della revisione da parte della comunità scientifica venendo cristallizzate su una rivista internazionale di settore. Due anni fa, quel passaggio non era ancora stato fatto ed è arrivato solo sette mesi fa, con una pubblicazione su Scientific Reports, che è rivista del gruppo Nature. Quello studio, limitato ad una platea contenuta di campioni, è una pietra miliare ma – come da metodo scientifico riconosciuto – dovrà essere replicato su scala statisticamente più vasta. Ad oggi, non riesce a spiegare alcune questioni fondamentali. Tra tutte, la più significativa: perché Xylella c’è pure su alberi verdi, senza alcun sintomo, e non c’è su ulivi che invece sono preda del disseccamento?

Ci vuole tempo, si diceva, per avere risposte. Riconoscerlo, senza fughe in avanti o indietro, è lo sforzo che non si riesce a fare. E nella semplificazione si è arrivati all’inaudito: nel dibattito fisiologico in corso all’interno della stessa comunità scientifica – e di riflesso anche all’esterno – si è giunti a bollarsi a vicenda come “santoni” da un lato e “asserviti al potere” dall’altro. Forse perché screditare è più facile che riconoscere. E questo vale anche per la politica, anche per il giornalismo. I fatti. Sin dal 2013, l’Osservatorio fitosanitario regionale (che rispetto alle segnalazioni degli agricoltori risalenti alle 2009 si è mosso con un presunto ritardo, su cui continua a indagare la Procura di Lecce) ha ammesso che ci si trovava di fronte a qualcosa di inedito. Lo ha chiamato Co.di.r.o: “complesso del disseccamento rapido dell’olivo”, dato dalla compresenza di più cause che fanno rinsecchire la pianta emblema della Puglia e del Mediterraneo. Tra quei fattori, c’è anche il batterio Xylella fastidiosa, della cui esistenza accertata in Europa fino a quell’anno non si aveva traccia. Nel tempo, però, quel “Co.di.r.o” si è ridotto solo a Xylella. E ciò è avvenuto molto prima della pubblicazione scientifica del dicembre scorso. Questo perché “tutti gli isolati di Xylella all’analisi molecolare sono riconducibili a un identico genotipo” e questa “omogeneità molecolare sostiene l’origine della malattia di una unica e recente fonte di infezione”, ha spiegato nel 2016 l’Accademia dei Lincei, dopo visite nel Salento e colloqui con i ricercatori. E ciò a fronte di un vulnus non da poco, su cui altri scienziati e ricercatori insistono: gli studi non hanno superato la “peer review”, cioè tutta quella complessa procedura di revisione eseguita da altri specialisti per accertare se il lavoro svolto segue correttamente il metodo scientifico, garantendo coerenza tra premesse, svolgimento e risultati.

Nel mezzo, ci sono i numeri da spiegare e sono quelli del monitoraggio regionale. Sono stati forniti dalla Regione Puglia al Ministero delle Politiche agricole e alla Commissione europea, resi noti ad aprile e aggiornati al 23 marzo scorso. Restituiscono in cifre la vasta campagna di campionamenti svolta in due anni su 1.626 chilometri quadrati, nelle fasce di contenimento e cuscinetto, a cavallo delle province di Brindisi, Taranto e Bari: a fronte di 169.124 piante analizzate, 3.058  sono state trovate infette. È molto? È poco? È pari all’1,8 per cento. Questo dimostrerebbe, a detta del competente assessorato regionale, che “non c’è nessun boom di casi di Xylella in Puglia” e che anzi, in confronto al campionamento fermo al 31 dicembre 2017, il tasso di alberi infetti sul totale di quelli ispezionati si è ridotto rispetto all’iniziale 2,3 per cento. Per contro, questi dati non riguardano la zona dichiarata infetta, che oggi si estende dal Capo di Leuca fino a Ostuni, Ceglie Messapica e Grottaglie. Lì, dunque, non si sa quale sia il rapporto vero tra gli alberi secchi e quelli infettati dal batterio.

Le conseguenze. Si arriva a vedere Xylella in ogni cima bruna di un ulivo, così, “ad occhio”. Senza analisi. Anche e soprattutto nell’immaginario collettivo, si semplifica: disseccamenti uguale Xylella. Dimenticando gli altri fattori che storicamente, in un territorio vocato all’olivicoltura, potrebbero essere considerati determinanti. Xylella serve a spiegare tutto, insomma. E soprattutto serve a giustificare tutto. Giustifica lo sradicamento degli ulivi anche secolari, “perché tanto non c’è cura” e i tentativi di ridurre i sintomi sono considerati roba da stregoni. Giustifica la massiccia sostituzione che si sta per realizzare, con il benestare dell’Ue: le cultivar storiche tipiche, Cellina di Nardò e Ogliarola, possono essere soppiantate con quelle considerate resistenti o più tolleranti al patogeno, come Leccino e Favolosa, che più si prestano ad una coltivazione intensiva, lontana dalla storia e dal paesaggio salentini. Giustifica le richieste sempre più pressanti delle organizzazioni di categoria di avere più quote di impianto dei vigneti, per sostituire gli ulivi “malati”. Giustifica anche qualche maldestro tentativo, documentato e finito al vaglio degli inquirenti, di espiantare gli alberi considerati “infetti”, anche senza prove di laboratorio, per far posto a discoteche, case e resort. Giustifica, persino, l’imposizione dell’uso massiccio di fitofarmaci, in un territorio vastissimo corrispondente a tutta la bassa Puglia, con quattro trattamenti all’anno obbligatori, pena pesanti multe, ma a fronte di zero studi sugli impatti ambientali e sanitari che verranno provocati. E nella riduzione della complessità del problema, si giustifica, di contro, anche altro: le conseguenze vengono confuse con le cause. Così il pasticcio è servito.

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