di Alberto Piccinini * e Stefania Mangione **

Con una recente decisione (sentenza 6 giugno 2019, n° 14527) la Corte di Cassazione ha riformato la decisione della Corte d’Appello di Napoli del 27 settembre 2016, considerando legittimi i licenziamenti dei dipendenti che avevano inscenato una rappresentazione di finto suicidio di un pupazzo che rappresentava l’amministratore delegato di Fca/Fiat. Quel giorno si era uccisa un’operaia e l’anno prima si era impiccato un altro lavoratore: i dipendenti licenziati intendevano attribuire alla società la responsabilità di quei gesti, con espressioni “satiriche”, certamente pesanti, ma tuttavia strettamente riferite al comportamento imprenditoriale che si voleva criticare.

Il fatto che i giudici della Corte di cassazione riformulino considerazioni di merito, peraltro diametralmente opposte a quella dei giudici di secondo grado, desta di per sé stupore (nel precedente relativo ai tre licenziati di Melfi la stessa Corte aveva escluso di poterlo fare): in ogni caso dà la misura di come i destini delle persone, messi in mano alla giustizia, dipendano da valutazioni del tutto soggettive dei magistrati chiamati a decidere. E questo non può che amareggiare chi invece si illude che esistano dei principi di certezza di diritto.

Il tema centrale della motivazione della sentenza riguarda l’individuazione del punto di equilibrio tra l’interesse di una persona oggetto di affermazioni o gesti ritenuti lesivi del proprio onore e l’interesse contrapposto alla libera manifestazione del pensiero dell’autore (o degli autori) di quelle affermazioni o di quei gesti. In particolare si trattava di tracciare i confini del diritto di critica esercitato attraverso la satira che – come riconosce la stessa Corte nella sentenza in commento – prevede “l’utilizzo di un linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti ed esagerate” che “essendo inteso, con accento caricaturale, alla dissacrazione e allo smascheramento di errori e vizi di uno o più persone, è essenzialmente simbolico e paradossale”.

Nonostante ciò, la Corte ha censurato il comportamento dei lavoratori che avrebbero attribuito “all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima, nonché derisione e irrisione”.

A nostro avviso, poiché suscitare irrisione può essere considerato lo scopo della satira, appare esagerato ritenere che le “modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori” abbiano spostato la dialettica sindacale “su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario” e moralista sostenere che vi sia stata una violazione dell’obbligo di fedeltà per la “menomazione dell’onore, della reputazione e del prestigio del datore di lavoro (…) contravvenendo al cosiddetto minimo etico: ossia a quei doveri fondamentali che si concretano in obblighi di condotta per il rispetto dei canoni dell’ordinaria convivenza civile”: ancor più se si riconosce, come la stessa sentenza fa, che la condotta dei lavoratori non ha integrato il reato di diffamazione,
Non è certo la prima volta che la giurisprudenza si misura con casi in cui in cui la critica sindacale si era espressa con toni e modi di disapprovazione, anche particolarmente aspri: è stato considerato illegittimo, sempre dalla Cassazione, il licenziamento di un dipendente (e rappresentante sindacale) che aveva definito “sbruffone” l’amministratore unico della società, ritenendola “una semplice reazione emotiva scevra da intenti di minaccia” ; o quello di altro rappresentante sindacale che si è rifiutato di ricevere la documentazione relativa alla procedure di mobilità concernente anche la sua posizione lavorativa con “frasi di apprezzamento negativo dell’iniziativa datoriale espresse dal lavoratore”.

In un altro caso di un sindacalista, accusato di reato, si è ritenuta incensurabile la condotta a fronte di espressioni oggettivamente offensive, in quanto “funzionali all’iniziativa sindacale e in sintonia con i pertinenti moduli espressivi” e non debordando, dunque, dai limiti all’esercizio del relativo diritto di critica. E ancora, la Suprema Corte ha ritenuto che non giustificasse il licenziamento l’uso di espressioni come “carattere “sconcertante” o “grottesco” o “borbonico” della situazione, definita come “vergogna aziendale”.

Conclusivamente riteniamo che la Corte di Cassazione, sulla base dei suoi stessi precedenti, avrebbe potuto confermare la decisione della Corte d’Appello di Napoli, e che desti conseguentemente amarezza constatare il particolare rigore dimostrato in questo caso, che ha comportato la perdita definitiva del posto di lavoro di cinque operai.

* Sono avvocato giuslavorista a Bologna, dalla parte dei lavoratori.  Ho scritto numerosi articoli in riviste specializzate e qualche libro in materia di licenziamenti e di comportamento antisindacale (oltre a un paio di romanzi e una raccolta di racconti); sono Presidente di Comma2, lavoro è dignità.

** Sono avvocata giuslavorista a Bologna, per i lavoratori. Ho scritto, assieme ad Alberto Piccinini, un libro in materia di comportamento antisindacale e faccio della parte della redazione regionale Emilia – Romagna della rivista RGL News. Collaboro con AFeVa Emilia Romagna (Associazione famigliari e vittime dell’amianto) .

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