L’antropologo Stanley Fish, qualche anno fa ha coniato “boutique multiculturalism” definizione che indica l’accettazione “cosmetica e superficiale” delle altre culture, ridotte ad una passione pseudo-globalista per ristoranti etnici, abiti, musica e cibo. Passione per la produzione culturale di consumo, quindi, non per l’essenza della cultura.

Gli applausi in rete alla foto delle giovani atlete italiane di minoranze etniche seguono in senso lato questa dinamica: le quattro ragazze sono diventate protagoniste involontarie di un dibattito (mai nato) sul multiculturalismo in Italia nonostante di multiculturale, nella foto da “Charlie’s Angels” ci fosse solo il fatto di essere nere e italiane. Quale potenziale rivoluzionario ha quello scatto e soprattutto quale significato letto dalla platea e non inteso da chi lo ha compiuto? “Io italiana e basta. Non avevamo neanche notato di essere quattro nere” ha detto Maria Benedicta Chigbolu liquidando subito chi, magari, pensava già di candidarle il prossimo anno alle Europee.

Ecco, noi italiani – soprattutto gli autoctoni, forti della tradizione cattolica che ci esorta a dare la caccia ovunque a simboli e icone – siamo campioni nell’inventare significati anche laddove non esistono.

Cosa vuol dire esattamente “realtà contro Pontida”? Davvero chi è antirazzista in Italia è convinto che il razzismo si esaurisca nella non accettazione manifesta del diverso? Che una foto con quattro italiane di minoranza etnica con addosso la divisa azzurra della nazionale sia di per sé sintomo del declino del pensiero razzista e discriminatorio? Magari ci volesse così poco.

In questo senso i Paesi con una tradizione di immigrazione – non l’Italia dove il fenomeno è relativamente recente – dove le generazioni di immigrati non occidentali sono ormai giunti alla terza o alla quarta hanno molto da insegnarci: per cominciare il razzismo e la discriminazione non passano per la “realtà di fatto”. L’Olanda, il Belgio e il Regno Unito ci raccontano che un paese può aver dato i natali a tre generazioni originarie dell’Africa o dell’Asia ma questo fatto in sé non scalfisce il razzismo, anzi, lo sviluppo di dinamiche sociali identitarie complesse da parte delle minoranze diventa esso stesso una miccia per la discriminazione.

Le quattro atlete italiane rappresenterebbero, secondo alcuni, la “realtà”: e quale sarebbe questa realtà? Davvero nessuno si è accorto che parlare l’idioma nazionale da madrelingua e condividere quel minimo comune di tradizioni con la società maggioritaria non esaurisce il problema del razzismo? Che ai figli degli immigrati basti spogliarsi della cultura di padri e nonni, essere “assimilati“, affinché la discriminazione sparisca?

Razzismo e società multietnica possono assolutamente convivere e questo è il problema che a molti sfugge: razzismo vuol dire dare priorità agli autoctoni per domande di lavoro e ricerca di alloggio, vuol dire abusare del potere discrezionale “profilando” soprattutto cittadini di minoranze; una forma sofisticata e subdola di razzismo, una versione strutturale che non usa mai la “n” word eppure limita attivamente alle minoranze l’accesso a posti chiave nella società che non siano nelle arti, nello sport e nel commercio.

Questo è il razzismo del 2018 e tolto il “boutique multiculturalism” che vede nelle quattro giovani atlete, nei cantanti o negli imprenditori di minoranze etniche simboli della vittoria della nuova Italia sui rigurgiti leghisti, l’Italia dovrà fare presto i conti proprio con questa sottile forma di apartheid che sfugge ai radar.

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