Secondo uno dei pochi giornali egiziani di solito attendibili, al-Masry al-Ayoum, di fronte alle coste dell’Egitto l’Eni ha scoperto un giacimento di gas, Noor, che ha dimensioni pari a tre volte il gigantesco giacimento di Zohr, individuato nel 2015 e ritenuto all’epoca il più grande del Mediterraneo.

Le stime delle dimensioni dei giacimenti di idrocarburi sono sempre scommesse, pronostici che possono essere smentiti quando comincia l’estrazione (tra due mesi, secondo il governo egiziano). Ma se al-Masry al-Ayoum, o in questo caso l’Eni, avessero indovinato, ci troveremmo di fronte ad un evento che in prospettiva può cambiare la geopolitica del Mediterraneo. A quel punto l’Egitto si troverebbe nelle condizioni di diventare un grande esportatore di energia verso l’Europa, a scapito delle analoghe ambizioni israeliane affidate ai giacimenti Tamar e Leviathan, quest’ultimo in joint-venture con l’americana Noble.

Inoltre perderebbe senso l’accordo patrocinato da al-Sisi per il quale in febbraio una compagnia egiziana si è impegnata a importare gas da Israele, con tutto quel che consegue in termini geopolitici da questo genere di contratti (“Un gol dell’Egitto”, l’ha definito il dittatore egiziano, per tacitare i mugugni di quella parte del regime che invece lo considera un autogol). Infine la scoperta potrebbe mettere l’Italia nelle condizione di pensarsi come uno dei fulcri degli approvvigionamenti energetici europei, ruolo che fino a ieri pareva riservato ai Paesi traversate dalle traiettorie del gas russo destinato al continente; e indurre l’Egitto (ma questo è più improbabile) a rinunciare alle sue ambizione sulla Libia orientale, e sui suoi pozzi petroliferi.

Tutto questo porrebbe all’Italia anche qualche problema. L’Egitto è un regime fondato sulla tortura di massa e sulla violazione dei più elementari diritti umani, come la vicenda di Giulio Regeni ci ha costretto a scoprire. Quest’ultima ha condotto i governi italiani a complicate finzioni, per le quali Roma attendeva, richiedeva, pretendeva la verità su quell’omicidio. Non solo la verità non è arrivata, ma col passare del tempo si è fatta sempre più evidente la certezza che stavamo chiedendo chi fosse l’assassino proprio all’assassino, inteso come il regime egiziano ma anche come lo stesso Al Sisi, senza il cui assenso i militari non avrebbero ucciso Regeni dopo averlo torturato per una settimana. Il governo attuale viaggia sullo stessa linea dei precedenti, però, stando alle dichiarazioni di Salvini, farà a meno degli infingimenti dei predecessori e nei rapporti col Cairo rinuncerà a sollevare richieste di verità. Al Sisi tornerà a essere, se non il grandioso statista a suo tempo lodato da Renzi, almeno un prezioso amico e alleato. In nome del ‘realismo’.

Ma è realistico il realismo? Al Sisi è tutt’altro che saldo, a giudicare dalla velocità con cui cambia ministri e vertici militari temendo complotti. Piace a Netanyhau, a Trump, a Putin: si è messo con le vele al vento. Ma il vento potrebbe cambiare, forse prima di quanto si possa prevedere. E quando questo accadrà, perché alla fine accadrà, trovarsi abbracciati ad Al Sisi potrebbe risultare per l’Italia imbarazzante, perfino contrario all’interesse nazionale. Di conseguenza un governo e un servizio segreto appena previdenti avrebbero cura non solo di difendere gli interessi dell’Eni trovando quel che finora è mancato, una misura di dignità; ma soprattutto coltiverebbero con discrezione un telaio di relazioni con l’Egitto che non ama Al Sisi e di conseguenza disprezza con ragione l’Europa, avendola vista baciare la pantofola del dittatore pur di accaparrarsi affari.

La stessa Europa che adesso si prepara a finanziare la banda dei dittatori ‘amici’, in testa Al Sisi, nel quadro di un tragicomico ‘piano Marshall’ (il vero piano Marshall aiutava le democrazie, non le tirannidi) ispirato all’altrettanto tragicomico ‘aiutiamoli a casa loro’ di renziana memoria. Anche in questo caso attendersi un minimo di pensiero strategico dall’Italia sarebbe una pia illusione, almeno a giudicare dai due vicepremier. Salvini salvineggia. Di Maio sembra sempre più il Gatto dello Cheshire, un sorriso che galleggia nel nulla (parafrasando Alice si potrebbe dire: “Ho visto politici senza ghigno, ma ghigni senza politico mai”).

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