Sono stato ospite di Tgcom24. Si parlava dei rider e del forte interesse del nuovo governo nei loro confronti. In diretta è intervenuto anche il ministro del lavoro Luigi Di Maio che ha posto in testa alla sua agenda la causa di questi ciclofattorini 4.0, cartina di tornasole della cosiddetta Gig Economy. Di Maio aveva appena incontrato i big del food delivery, i giganti del cibo consegnato a domicilio, da Foodora a Just Eat: quelle app multinazionali “incarnate” in algoritmi al cui servizio pedalano, dannatamente, i rider. Mi hanno invitato perché ho pubblicato di recente un libro che contiene e approfondisce, in anticipo sui tempi, la stragrande maggioranza dei temi diventati poi una colonna portante del dibattito pubblico nonché una priorità assoluta per i 5 Stelle al governo. “Italian Job, viaggio nel cuore nero del mercato del lavoro italiano” (Sperling&Kupfer) è il titolo del mio libro, un saggio scritto a mo’ di racconto corale per dar voce a chi voce non ne aveva mai avuta. In Rete trovate tutte le informazioni del caso. Questi sono alcuni estratti del capitolo intitolato “Cibo digitale a domicilio: l’incredibile sfruttamento dei riders”.

Che nevichi o piova che Dio la manda, sono sempre lì, sulla strada, puntualissimi. Pedalano con tutta la forza che hanno in corpo per spaccare il secondo, per rispettare il cronogramma fissato per la consegna. A costo anche di passare col semaforo rosso o di rompersi la testa se prendono una buca, se l’asfalto è ghiacciato, se la pioggia offusca il mondo. «Ti racconto un paio di episodi – mi dice uno di loro. Una volta la piattafor­ma per cui lavoro, venuta a conoscenza di un incidente, ha messo in discussione il fatto di dover pagare l’intero turno al rider che si era fatto male a metà servizio, e gli ha tolto i turni già programmati per lui quella settima­na, senza fornirgli nessun tipo di sostegno per le spese mediche. Un’altra volta un mio collega si è ammalato e ha informato i nostri superiori di non poter svolgere il suo turno perché a letto con l’influenza. Vuoi sapere cosa gli hanno risposto? Che se fosse successo nuovamente ‘avrebbero riconsiderato il loro rapporto lavorativo’».

Un nuovo proletariato trasversale, tra i venti e i qua­rant’anni, s’avanza, zaino termico colorato e gigante in spalla, alimentato da studenti universitari, stranieri ed esodati dal mercato del lavoro tradizionale. Senza più diritti né tutele, senza possibilità di assunzione. No futu­re, come divinavano i punk. Sottopagati on demand. A cottimo. Pagandosi da soli il mezzo a due ruote, la ben­zina e le spese di manutenzione. Sobbarcandosi persino certi rischi di impresa: se la merce che trasportano viene persa o danneggiata, ne rispondono loro. Logistica in tempo reale. Eat in time.

Si organizzano su gruppi e pagine Facebook dedicate, oppure via WhatsApp, dove vengono pure «sloggati», cioè licenziati direttamente. Sono retribuiti su base ora­ria, quattro o cinque euro all’ora, o con due, tre, quattro euro a consegna. Le flotte vengono rinnovate a intervalli regolari, il turn over è la regola, e se a fine mese non si raggiunge una soglia minima di una quarantina di consegne l’accredito dello «stipendio» è rimandato al mese successivo…

Quando ordiniamo una porzione di spaghetti di soia, del sushi, un kebab, una delizia vegana o una ricetta etnica a scelta, pensiamo per un momento a loro, che per guadagnare cinquecento euro lordi devono pedalare l’equivalente di due giri d’Italia e l’acido lattico in esubero è soltanto l’ultimo dei problemi.

«Un lavoro da tempo libero», sostengono i manager che accumulano fortune grazie a questo nuovo schiavismo. Per Gianluca Cocco, condirettore di Foodora Italia, la sua azienda sarebbe «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio». Tutta salute, insomma, serotonina e muscoli tonici, e pedalando pedalando puoi anche raggranellare la cifra sufficiente per offrire una coppetta di gelato con una pallina alla tua morosa. Più felici di così.

Ma contro il cinismo delle multinazionali delle pietanze viaggianti si staglia una consapevolezza nuova. Mi spiega uno dei rider in lotta in giubbotto smanicato, city bike e lucette led: «Le aziende continuano a chia­marlo lavoretto. Se sarai disponibile e parecchio veloce, consegnerai tanto e salirai nel ranking, perché l’algoritmo ne tiene conto. Ma se avrai problemi, bucherai una ruota, ti ammalerai, partirai per le vacanze o sospenderai per un po’ la collaborazione, allora perderai posizioni su posizioni e la possibilità di intercettare altri slot orari. Adesso basta. Vogliamo diritti e dignità».

Perché i fattorini digitali non sono replicanti alla Blade Runner, e nemmeno droni fatti di legno, plastica, allumi­nio, carbonio, batterie ai polimeri di litio, antenne GPS e accelerometri. Restiamo umani.

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