Quando si tratta di salvare una vita umana in pericolo è necessario intervenire. E subito. Questa è la premessa di qualunque discorso, ma sul tema che impegna l’inizio di questa “calda” estate è necessario riflettere cercando di fare chiarezza su quelle che sono le norme interne e internazionali in gioco.

La prima domanda che molti si fanno è se sia legittimo impedire l’approdo delle navi dei migranti nei nostri porti. Qui in “conflitto” ci sono due diritti e interessi forti, entrambi meritevoli di attenzione e di tutela. Parliamo della salvaguardia della vita umana in mare, un principio umanitario che è stato accolto nelle norme internazionali e nel nostro codice della navigazione e d’altro canto il principio di sovranità di uno Stato che ben può essere limitato quando – diverse sono le ipotesi – vi siano motivi di ordine pubblico o siano state violate delle norme.

Si può affermare che lo Stato possa limitare l’accesso di navi straniere nei suoi porti, ciò si desume appunto dall’enunciazione stessa del principio di sovranità, ma anche dal codice della navigazione il quale, per esempio, nell’art. 83 afferma che “si può limitare a o vietare per motivi di ordine pubblico, il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale”. Il mare territoriale che si estende sino alle dodici miglia marine è a tutti gli effetti sotto la sovranità italiana, qui l’accesso può essere interdetto anche per ragioni di tutela dell’ambiente marino.

Nel caso dell’Aquarius o della Lifeline si può interpretare l’esigenza di ordine pubblico in varie declinazioni sino ad affermare che in realtà le Ong stiano violando le norme sull’immigrazione clandestina. Su questo tema, però, ci sono state anche sentenze recenti – l’ultima a Ragusa – che hanno escluso il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per alcune Ong, proprio in forza del principio per il quale gli operatori volontari si sono trovati nella necessità di salvaguardare la vita umana in mare.

Altro punto è l’obbligo di prestare soccorso. Quanto ai principi generali di soccorso in mare il nostro codice della navigazione all’art. 69 prevede che “quando l’autorità marittima abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro deve immediatamente provvedere al soccorso”. È bene ribadire che oltre a essere un principio umanitario questa è una norma di legge, da cui discendono delle conseguenze in caso di inosservanza.

La norma, però, non specifica dove (o meglio sino a dove) questo soccorso debba essere prestato. Perché sussista un obbligo basta che si abbia notizia del naufragio o della situazione pericolosa. In realtà ciascun Paese europeo ha delle sue zone di competenza che si chiamano zone Sar (Search and rescue) e la nostra finisce ai limiti della Sicilia orientale sconfinando però a tratti anche in quella attigua di Malta che si spinge, invece, sino quasi alle coste della Libia.

I maltesi hanno sempre affermato che la loro zona Sar è enorme e spropositata rispetto al piccolo Stato e di solito non intervengono pur avendo notizia di immigrati in difficoltà né hanno quasi mai dato accesso alle navi cariche di clandestini neppure in situazioni pericolose per vita dei migranti. Lo Stato italiano, invece, in forza delle norme del codice della navigazione e i principi internazionali poiché la notizia di soccorso arriva sempre a Roma al Imrcc (Centro di coordinamento del soccorso) è sempre intervenuta non solo nella propria zona Sar, ma anche altrove specialmente in quella maltese e sino alle coste libiche.

Uno sforzo enorme, immenso, per il quale i militari della nostra Guardia costiera meriterebbero il Nobel per la pace. Milioni di persone salvate anche in collaborazione con le Ong che operano in quella zona. Un impegno che non è stato finora compreso, né forse riconosciuto da altri Paesi europei (le accuse mosse all’Italia sono risibili) i quali invece (parliamo di tutti coloro che si affacciano sul Mediterraneo) hanno inteso difendere per primo il principio della sovranità rispetto a quelli umanitari e del soccorso.

A livello internazionale dovrebbero, quindi, essere meglio definiti compiti e responsabilità in ambito degli spazi marini del mediterraneo dell’autorità Sar italiana considerando che i principi vigenti rendono prioritaria l’azione nell’ambito dell’area di competenza nazionale in prossimità delle coste italiane. È necessario rivedere anche la natura, i limiti e l’ambito di competenza del soccorso in mare di un istituto che è nato per affrontare le emergenze di navi o imbarcazioni da diporto in difficoltà, ma che di fronte a un fenomeno ormai consolidato come quello migratorio risulta inadeguato. Da qui discende che il problema non è e non può essere solo italiano, ma europeo e internazionale. E che vanno presi nuovi accordi.

Se l’Italia, anche per ragioni geografiche, può e deve essere il primo porto di approdo (perché le persone in difficoltà e in pericolo di perdere la vita devono essere portate nell’approdo più vicino e sicuro) sarebbe necessario che da noi con spese condivise e comuni venissero istituiti dei centri internazionali di accoglienza dove i migranti vengono prima accolti, curati e identificati ove possibile e poi smistati nei vari Paesi secondo le quote predeterminate.

Personalmente non ritengo che ciò sia possibile in Libia o altrove nei Paesi di partenza dove i principi umanitari vengono sistematicamente e brutalmente violati nel colpevole silenzio della Comunità internazionale. Un giorno quando le cifre vere delle vittime nei campi libici verranno fuori non potremo che vergognarci.

E poi – a partire dal nostro Paese – è necessario che inizi una vera politica migratoria di accoglienza di chi ne ha diritto, che alle persone ospitate si offra dignità e opportunità ove sia possibile. Su questo tema bisogna lavorare e duramente, non c’è spazio per le strumentalizzazioni e i falsi pietismi.

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