di Eugenio D’Auria*

Vi è da augurarsi che il melodramma legato alla nomina a ministro dell’Economia del professor Paolo Savona non si sviluppi in direzioni impreviste e pericolose. È comunque paradossale che la formazione del Governo del cambiamento si sia incagliata su uno scoglio di politica estera, tematica normalmente snobbata nei programmi dei partiti in campagna elettorale. Anche se è vero che le questioni europee sono sempre state al centro dell’attenzione, sia pure limitatamente all’immigrazione e all’austerità.

Di colpo abbiamo invece scoperto che siamo sotto lo spietato dominio di Berlino e Bruxelles, eleggendo a nostro paladino il professor Savona. Sarebbe preferibile una riflessione un po’ più approfondita e meno ancorata a spinte emotive già fin troppo esasperate sui social media. Mettendo da parte i complessi risvolti costituzionali della questione – anche perché se ne stanno occupando migliaia di costituzionalisti improvvisati – può essere opportuno concentrarsi sui nostri rapporti con Bruxelles.

La costruzione europea è una macchina articolata, edificata intorno a trattati firmati oltre 50 anni or sono e successivamente integrati in occasione delle adesioni di nuovi Paesi membri. Come stanno verificando a Londra, la decisione di uscire dall’Unione è complessa e onerosa. Avverrebbe la stessa cosa per l’uscita dall’euro, soprattutto se non adeguatamente preparata. E il dilemma è proprio questo: annunciare la volontà di uscire dalla moneta unica avrebbe immediate ricadute sui mercati finanziari, con la conseguente difficoltà a trovare investitori per i nostri Btp. L’unica via di uscita sarebbe quindi quella di negoziare con i Paesi partner il nostro ritiro, a condizione di essere in grado di far fronte da soli al peso del nostro debito.

Nei momenti di tensione e contrasto con Bruxelles si discuteva genericamente di due linee contrapposte: quella favorevole a battere i pugni sul tavolo e quella più “accomodante”. Quale delle due sia più dannosa per i nostri interessi è difficile dire: i pugni venivano (raramente) sbattuti sul tavolo sino al negoziato successivo quando, immancabilmente, vi erano altre tematiche sulle quali occorreva trovare un compromesso; gli accomodamenti successivi hanno invece procurato soltanto qualche vantaggio marginale, senza alcuna influenza sui tavoli più importanti. Superfluo ricordare le minacce di veto su questo o quel dossier, immancabilmente ritirato al momento di altre decisioni divenute improvvisamente prioritarie per giustificare il ritiro del nostro blocco.

La realtà è che a Bruxelles – e negli altri consessi multilaterali – occorre costruire con pazienza posizioni ben ponderate, con alleanze che richiedono impegno e continuità di azione. La volatilità delle nostre posizioni – determinata dai frequenti cambi di governo e favorita da tecnici desiderosi di assecondare i desideri del politico di turno – non ha certamente facilitato la difesa dei nostri interessi nel lungo periodo. Non vi è quindi da meravigliarsi se molti ritengono eccessivamente acquiescente il nostro atteggiamento verso le proposte della Commissione o le posizioni di partner più importanti.

Privi di linee guida ispirate a una visione ampia dei nostri interessi, i rappresentanti italiani sceglievano la soluzione che assicurava qualche vantaggio immediato, così da rientrare a Roma e sbandierare sugli organi di informazione il successo ottenuto. È quindi comprensibile che il presidente Sergio Mattarella si sia preoccupato per una linea politica (non discussa in campagna elettorale) che avrebbe comportato un forte contrasto da parte di tutti gli altri Paesi membri e della Commissione in mancanza di un lavoro preparatorio indispensabile ad assicurare il successo della nostra iniziativa.

Ora vi è da sperare che un’eventuale nuova campagna elettorale dia modo di approfondire con pacatezza le rilevanti tematiche poste in evidenza dal professor Savona e, prima di lui, da molti altri economisti. D’altra parte le dichiarazioni del presidente Emmauel Macron in tema di rilancio dell’Unione Europea possono essere interpretate come un’attenta apertura verso una revisione degli attuali meccanismi comunitari, espressa in forma tale da non imbarazzare la cancelliera Angela Merkel a sua volta alle prese con problemi di politica interna di rilevanti dimensioni.

Se vogliamo davvero contare di più in Europa è necessario acquisire una elevato tasso di credibilità, basato soprattutto su istituzioni che noi per primi dobbiamo imparare a rispettare e sulla continuità di un’azione che non può prescindere da un’attenta opera di disboscamento di privilegi e facilitazioni di varia natura. Non si tratta quindi di una generica revisione della spesa quanto di un’attenta selezione delle aree e delle categorie che nel corso degli anni hanno beneficiato di trattamenti di favore (vaste programme, direbbe il generale Charles de Gaulle).

Dobbiamo riconoscere che abbiamo creato un insieme di garanzie e meccanismi che risulta ora difficile confrontare per decidere quali ridurre o eliminare. Un semplice esempio, forse non molto popolare, per rendere la questione più chiara; chi ha assorbito più risorse: i titolari di una pensione che hanno cominciato a percepire il proprio trattamento di quiescenza a 40 anni o quanti sono stati avvantaggiati da un trattamento calcolato su base retributiva e non contributiva?

*Già ambasciatore in Arabia Saudita

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