A tre mesi dalla richiesta dell’accusa arriva il momento della difesa nel processo Saipem Algeria. Negli atti dell’inchiesta e in quelli depositati nel processo ci “sono elementi univoci” che “travolgono la tesi dell’accusa“, “prove di segno opposto rispetto alle ipotesi dell’accusa” che dimostrano l’estraneità di Paolo Scaroni e che quando l’ex ad Eni incontrò l’uomo di fiducia del ministro algerino non ci fu “alcuna intesa corruttiva”. Lo ha sottolineato, all’inizio della sua arringa, l’avvocato Enrico De Castiglioni, legale dell’ex numero uno del gruppo, tra gli imputati (ci sono anche la stessa Eni e Saipem) per corruzione internazionale nel dibattimento in corso a Milano con al centro presunte tangenti pagate in Algeria in cambio di appalti.

Per la difesa che chiede l’assoluzione di Scaroni (i pm hanno chiesto, invece, una condanna a 6 anni e 4 mesi), in particolare, due degli incontri tra l’allora ad e Farid Bedjaoui, fiduciario dell’allora ministro algerino dell’Energia, avvennero quando ancora Eni non aveva “alcun interesse”, come emerge dagli atti, ad acquisire First Calgari Petrolum. E un terzo incontro ci fu ma quando il ministro algerino aveva già dato il consenso all’operazione. Quindi, per la difesa, quegli incontri, tra il 2007 e il 2008, non furono affatto funzionali ad accordi corruttivi, come sostiene la Procura.

Al centro del processo, in particolare, ci sono due episodi di sospette tangenti che sarebbero state versate all’allora ministro del Paese africano Chakib Khelil e al suo entourage: circa 197 milioni per ottenere appalti petroliferi per un valore di 8 miliardi e 41 milioni per avere il via libera da Khelil per l’acquisito della First Calgary Petroleum che in joint-venture con la società statale Sonatrach deteneva un giacimento di gas a Menzel, in Algeria.  Secondo il difensore, infatti, la tesi dell’accusa “è contraddetta da una serie di elementi probatori che sono in contrasto con la tesi d’accusa stessa e ne minano la struttura logica”.

In particolare, l’innocenza di Scaroni è dimostrata dal fatto che lui incontrò Bedjaoui il primo novembre 2007 a Parigi e il 13 marzo 2008 a Milano, ma “quando ci furono questi incontri Eni non aveva alcun reale interesse ad acquistare FCP”, come dimostra, tra le altre cose, una email del luglio di quell’anno inviata da Claudio Descalzi (attuale ad Eni e all’epoca responsabile della divisione Exploration&Production) a Scaroni. In quei due incontri, dunque, “non ci fu alcuna intesa corruttiva, perché il tema dell’acquisizione era ancora lontano e non immaginabile“.  Solo l’1 settembre di quell’anno Eni fece l’offerta per acquisire FCP e l’operazione si completò tra settembre appunto e novembre 2008, “mentre il terzo incontro – ha chiarito ancora la difesa – avvenne il 20 dicembre 2008 a Parigi, quando già il ministro algerino aveva dato il suo consenso”. Tra l’altro, ha aggiunto il legale, “non era solo Eni a partecipare a quella gara per acquisire FCP, c’erano anche altre società che, se avessero offerto un centesimo di più, avrebbero vinto”. Riguardo, poi, alla presunta maxi ‘steccà di 198 milioni di dollari, a detta della difesa, non c’è alcuna prova che Scaroni, che era numero uno del colosso petrolifero italiano, sapesse dei presunti pagamenti di Saipem, controllata di Eni, ma anzi anche in questo caso c’è la prova contraria, come emerge da almeno due testimonianze”. A processo si è arrivati dopo l’annullamento della Cassazione del proscioglimento deciso del gup di Milano.

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