Ci sono anche interessi legati alla volontà (o quantomeno al proposito) di difendere da una nascente concorrenza l’allora solido monopolio Alitalia dietro le manovre di depistaggio che, nel 1980, tentarono di spiegare la strage di Ustica con la tesi del “cedimento strutturale”? Non è forse un interrogativo nuovo, ma certo la Cassazione lo ha riportato recentemente alla ribalta.

Ecco perché: la Corte suprema ha condannato il ministero della Difesa e quello dei Trasporti per “omesso controllo e sorveglianza dei cieli sull’area di navigazione aerea attraversata dal Dc9 sui cieli di Ustica”. I due dicasteri dovranno risarcire la compagnia aerea Itavia, fallita dopo l’abbattimento del suo Dc9 colpito il 27 giugno 1980 da un missile che provocò la morte di 81 persone. Dopo 38 anni di attesa bisognerà però aspettare ancora qualche mese per sapere se i 265 milioni di indennizzo sono una somma giusta per risarcire la compagnia.

Intanto, però, si può osservare che con questa sentenza lo Stato ammette una sola colpa – quella relativa alla dinamica dei fatti della sera di quel 27 giugno – mentre non viene spiegato quale ragione (di Stato?) impedì di dire subito quel che già si sapeva o quantomeno da subito si sospettò; e cioè che fu un missile a colpire il Dc9. Era noto che sul Tirreno erano in corso esercitazioni militari e che in quei giorni la portaerei francese Clemenceau incrociava proprio quelle acque. Per coprire questa verità “militare”, dopo la sciagura si diffuse la tesi del cedimento strutturale: e fu così che la compagnia privata guidata dall’imprenditore marchigiano Aldo Davanzali (morto nel 2005) fu accusata di scarsa manutenzione e di mancato rispetto degli standard di sicurezza.

Un autentico colpo di fortuna per la preoccupata Alitalia che già guardava con timore alla concorrenza della Itavia, la quale – nonostante la difficile posizione e il monopolio della compagnia di bandiera – si era conquistata una buona quota di rotte e di passeggeri sulle tratte aeree nazionali al quel tempo non presidiate, aiutata anche all’impraticabilità sulle lunghe distanze dell’alternativa ferroviaria. Questa attività cresceva durante la stagione estiva allargandosi ad alcune rotte europee con lo sviluppo dei voli charter: tanto che il numero degli addetti raggiunse le mille unità.

Furono in tanti, quasi 40 anni fa, a non credere alla tesi del cedimento strutturale, che consentì all’apparato pubblico di prendere due piccioni con una fava, nascondendo una scomoda verità ed eliminando un’altrettanto scomoda minaccia al monopolio della compagnia di bandiera. Tuttavia si fece ben presto largo l’idea che almeno le autorità militari italiane non potevano non sapere quel che era veramente successo e che quindi avessero depistato e falsificato, nascondendo la verità. Verità che per primi chiesero i parenti delle vittime e un autorevole comitato che ha poi dato vita a numerose iniziative, grazie alle quali la società civile si è riunita attorno alla richiesta di far piena luce sulle vere cause dell’incidente.

L’Italia degli attentati e della strategia della tensione di Piazza Fontana a Milano, di Piazza della Loggia a Brescia, dell’Italicus e della stazione di Bologna, però, non si smentì neppure in quell’occasione. La forza della democrazia e della verità, come nel caso degli attentati di mafia i cui anniversari ricorrono in questo periodo (da Giovanni Falcone a via dei Georgofili) mise a nudo il grave inquinamento di cui soffrivano gli apparati dello Stato. Inquinamento di cui era consapevole l’opinione pubblica ma saldamente compenetrato, al punto tale da far mettere in discussione la solidità democratica del nostro Paese. Come la sentenza della Cassazione dimostra.

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